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Una questione di nomi

Non voglio scrivere catastrofi. Così non scrivo affatto, per tenermene lontano. Ma le catastrofi sono ciò che siamo, ciò che stiamo vivendo e dirlo o tacerlo fa lo stesso; non le impedirà. Ma dire (ancora) di tutto il male che ci s’accumula nei cieli anneriti a tempesta, cieli individuali e cieli universali, non che sollevarcene, ci immerge nella cupa contentezza del nostro parossismo e siccome non siamo contenti, non vogliamo essere contenti, non dobbiamo contentare quel pessimismo, ecco, non scrivo, non parlo, non sento…
 
Ma volevo dire che se tutto ciò che ci accade non sono altro che parole, se tutta la storia che è pur stata la nostra dimora non è altro che il discorso di qualcuno, che a tratti eravamo noi stessi- se si trattava di mettere nomi diversi ad un inizio diverso dalla fine che ci aveva preceduto, noialtri, quelli della mia generazione, avevamo creduto di poter cambiare le parole, immetterne altre, nuove, sorprendenti, al posto delle vecchie, crudeli e arrugginite, sotto la cui corona di spine metalliche eravamo stati svezzati.
Così marcammo il nuovo che sorgeva con nomi nuovi che dovevano rovesciare nella luce le tenebre lasciateci indietro. Allora mettemmo Woodstock laddove era scritto Auschwitz, e in luogo dell’infernale Arbeit macht frei, ponemmo peace love and music. Sembrava proprio che il cupo sortilegio che aveva avvolto nelle tenebre i nostri padri fosse per sempre spezzato e che il bagno tragico dell’umanità nel magno mare del male non si sarebbe ripetuto mai più, never more, nie wieder, jamais plus… ahimè… ahimè…

Noi non potevamo, ossia era impossibile, comprendere che non si trattava altro che del “lieto fine” dell’abisso che ci aveva preceduto. La storia non è rettilinea e il mondo è a episodi, a puntate. Il nostro mondo dorato-non troppo, del movimento e dei “figli dei fiori”, il nostro decantato universo dei mitici anni ’60, era solo l’ultima puntata, dolce, utopica, chimerica, di quello che era stato il secolo più atroce del genere umano. L’atrocità chiudeva nel pacifismo e sembrava una fine bella e auspichevole - tanto da accreditarsi come un inizio, appunto, in luogo di una fine… Ma era una fine e dopo la fine, dopo ogni fine, si riaffaccia il mondo ordinario, col suo disordine immanente e le sue vagellanti vocazioni. Il mondo dell’”eterno ritorno”, il mondo odierno, eterno ripetente del medesimo, macroscopico, maledetto peccato originale. 

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