Scritto da © Marika - Dom, 04/07/2010 - 10:17
Stavo poggiando le natiche sulla sedia, quando diventai rossa, paonazza in faccia. Non era la prima volta che la magia mi scoppiava in viso e colorava la stanza, ma quella volta era diverso. Una strana luce rimiravo in quell'angolo dietro la porta. Era ancora lui, a distrarmi dai miei pensieri. E non era il momento adatto per incantarsi e pendere da quegli occhi, ma mi perdevo, mi adombravo dal resto. Mi sembrava così strano che qualcuno avesse quel potere di rubarmi dalle pesantezze di convegni e assemblee che quasi mi perdevo nei cunicoli di fantasie e strane immagini. La leggerezza mi invadeva, mi stava cambiando. Già. Strano. E io che avevo da sempre pensato di non essere capace di investire dentro una sensazione così forte, così avvolgente. Avevo sempre scartato fogli e consumato penne sopra una triste scrivania. Ora stavo aspettando il tanto atteso giorno di un riconoscimento in più del mio attempato lavoro di scrittrice. Mancavano pochi minuti per diventare redattrice, ma non mi importava più. Era come se la mia missione subisse improvvisamente una svolta, il sangue cambiava direzione nelle vene.
Volevo conoscerlo. Avevo ancora dieci minuti per consumare due parole in più con i pochi presenti. Io scelsi lui. Mi avvicinai con passo deciso e pronunciai il saluto che mi cambiò la vita. -"Ciao!"- gli rivolsi. -"Ciao..."- garbatamente rispose. Mi sorprese la sua educazione nel non tentar di sfuggirmi. Sembrava accogliermi con piacere nella seduta lì accanto. Io dimenticai di presentarmi, quasi a dare per scontato che ci eravamo conosciuti in questa o in un'altra vita. E chiesi come a cercar conferme: -"Chi sei?"-.
- "Matteo, piacere mio."- Lui fece il seguito: mi fece sentire a casa, parlammo di tutto e di più. Furono i dieci minuti più lunghi ed intensi della mia vita. Non sapevamo più la causa della nostra presenza lì. E così, tentando la sorte, uscimmo dal palazzo di vetro, lo avevamo già alle spalle. Passeggiamo lungo il marciapiede. Non ero brava a contare i passi, nemmeno mi importava. Le nostre storie si inanellavano nei racconti di ognuno dei due. Sentivamo che non avremmo potuto lasciarci andare...
I nostri discorsi erano compenetrati dalle nostre sensibilità. Una familiarità spiccata spendavamo nell'intavolarli, quasi che rispecchiassero delle piccole parentesi di una vita comune. Non sapevo cosa ci avesse separati, o cosa ci avesse tenuto tanto lontani. Di certo era accaduto ciò che si dice avvenga una volta sola: il riconoscimento di due anime affini, la chiusa del cerchio. Sapevo di aver lasciato alle spalle, dentro quel palazzo di vetro, la realizzazione di un sogno. Ma ora ero sicura che in quell'attimo avevo riconosciuto la mia missione, qualcosa di eccelso: lo scrivere la favola della mia vita. Stavolta avrei buttato carta, pennello, e penna. Oramai ci ero dentro, ero disposta a saltare. Il grande baratro scompariva di fronte a me e con esso tutto ciò che mi costringeva alle catene di un'esistenza arida e all'insegna della diplomazia. Potevo riempire i polmoni d'aria perché da quel giorno in poi avrei respirato col suo soffio in gola. Senza trattenermi dagli sbagli.
Volevo conoscerlo. Avevo ancora dieci minuti per consumare due parole in più con i pochi presenti. Io scelsi lui. Mi avvicinai con passo deciso e pronunciai il saluto che mi cambiò la vita. -"Ciao!"- gli rivolsi. -"Ciao..."- garbatamente rispose. Mi sorprese la sua educazione nel non tentar di sfuggirmi. Sembrava accogliermi con piacere nella seduta lì accanto. Io dimenticai di presentarmi, quasi a dare per scontato che ci eravamo conosciuti in questa o in un'altra vita. E chiesi come a cercar conferme: -"Chi sei?"-.
- "Matteo, piacere mio."- Lui fece il seguito: mi fece sentire a casa, parlammo di tutto e di più. Furono i dieci minuti più lunghi ed intensi della mia vita. Non sapevamo più la causa della nostra presenza lì. E così, tentando la sorte, uscimmo dal palazzo di vetro, lo avevamo già alle spalle. Passeggiamo lungo il marciapiede. Non ero brava a contare i passi, nemmeno mi importava. Le nostre storie si inanellavano nei racconti di ognuno dei due. Sentivamo che non avremmo potuto lasciarci andare...
I nostri discorsi erano compenetrati dalle nostre sensibilità. Una familiarità spiccata spendavamo nell'intavolarli, quasi che rispecchiassero delle piccole parentesi di una vita comune. Non sapevo cosa ci avesse separati, o cosa ci avesse tenuto tanto lontani. Di certo era accaduto ciò che si dice avvenga una volta sola: il riconoscimento di due anime affini, la chiusa del cerchio. Sapevo di aver lasciato alle spalle, dentro quel palazzo di vetro, la realizzazione di un sogno. Ma ora ero sicura che in quell'attimo avevo riconosciuto la mia missione, qualcosa di eccelso: lo scrivere la favola della mia vita. Stavolta avrei buttato carta, pennello, e penna. Oramai ci ero dentro, ero disposta a saltare. Il grande baratro scompariva di fronte a me e con esso tutto ciò che mi costringeva alle catene di un'esistenza arida e all'insegna della diplomazia. Potevo riempire i polmoni d'aria perché da quel giorno in poi avrei respirato col suo soffio in gola. Senza trattenermi dagli sbagli.
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