Ricordi di un piccolo mondo
Parte Due
Voglio rivivere ora brevemente altre cose vissute da me e Sergio in quei giorni passati.
Mi affiora nella memoria il ricordo di quando le carovane degli zingari arrivavano a Tolmezzo e si accampavano per alcuni giorni in quel pezzo di terra di nessuno che si trovava al di sotto della scarpata ferroviaria che confinava con la proprieta` di Siore Gigiutte, cosi` vicino alla casa di Nonna Gigia.
All'arrivo degli zingari circolavano in paese voci che volevano intimorire la gente. Dicevano: “Rubano quanto piu' possono, anche voialtri, quando siete cattivi."
Ma sapete bene il valore di queste cose, solo chiacchiere, molte parole e pochi fatti.
Nei miei ricordi, quegli zingari ci erano amici. Quando passavamo vicino al loro accampamento avevano un sorriso sulle labbra per noi e molte volte ci invitavano a cavalcare sui loro cavalli e poi ridevano maliziosamente nel vedere il modo in cui si era irrigiditi sulle groppe di quei ronzini, senza sella e redini, che ci costringevano ad aggrapparci forte alle loro criniere nel tentativo di tenerci in equilibrio. Ben poco si poteva parlare coi gitani, perche` parlavano unicamente il loro romanico. Ugualmente, ci lasciavano bazzicare attorno e noi li seguivamo nei loro lavori artigianali. Erano di carnagione scura e occhi fiammeggianti ed usavano fazzoletti annodati attorno al collo e qualcuno aveva pure un orecchino. Ero affascinato sebbene fossi solo un monello, da quelle donne gitane in lunghe e larghe sottane e sgargianti camiciole attilate che mettevano in risalto la loro bellezza. Avevano lunghi riccioli scuri che scappavano al di fuori di fazzoletti sgargianti annodati dietro la loro nuca. All’imbrunire da lontano si vedevano i fuochi dei loro bivacchi, ed era allora, quando le stelle giungevano allo zenith, che scaturivano i lamenti dei loro violini. Erano voci imperiose per me e Sergio, che ci facevano trovare il modo di sgaiattolare dai nostri letti e, senza esser notati, silenziosamente seguivamo le note dei violini, sino a che, vicini alle carovane tzigane, ci sdraiavamo a terra, pancia all'aria, con un lungo fuscello d'erba che ci pendeva dalle labbra e ce ne stavamo la`, in ascolto, sognando, rapiti dalle loro rapsodie. Vedevamo gli zingari, seduti su rozzi sgabelli, pipa penzoloni dalle labbra, attorno ai fuochi dei loro bivacchi. Vedevamo pure due di loro, violini alzati alle loro spalle, i quali creavano quelle dolci, seppure tristi melodie con i loro archetti e ci si sentivamo rapiti da quella musica magica che scaturiva dall’animo di quei girovaghi. Vi erano note molto dolci, che mai avevo sentito prima, alcune erano alte e sonore ed altre sussurrate appena e null’udirle brividi mi scorrevano velocemente lungo la spina dorsale, sino a raggiungere il centro dei miei sensi. Non capivo cosa veramente fosse, ma poi compresi che era dovuto a quella musica magica. A volte forse troppo malinconica, ma poi mutava ed era dolce e forte. Io e Sergio vibravano all’unisono con le note dei violini. Erano sensazioni sublimi che entravano in noi e ci trasportavono in paesi lontani e sconosciuti. Vedevo Sergio scosso come me dai tremori. Capivo che sognava ad occhi aperti nel mentre assimilava quella musica che lo affascinava.
E fu in una di quelle sere che lo udii esclamare, "Voglio andar via con loro, Carlo. Voglio vedere il mondo!"
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Vi sono altri ricordi di quei tempi felici. Ricordo come il retro della casa del Professore Franceschini si affacciava sulla nostra stessa viuzza. Lo ricordo affacendato, non in studi perche` mai potei pensare di lui come quel capace insegnante di lingue delle scuole superiori, lo ricordo invece come un magnifico artigiano. Bazzicavamo spesso con il suo consenso nel suo studio, e la` imparai a conscerlo nelle sue mansioni come artista. Nei giorni piovosi, che erano molti negli autunni Tolmezzini, ci permetteva di giocare nell’ampia sala che usava come laboratorio, che aveva eretto nel cortile. Sergio ed io avevamo il permesso di giocare con gli avanzi di quei lucidi pezzi di legno, in variegate venature rossastre. Mi sentivo affascinato dalle diverse tonalita` di colori che si mescolavano armoniosamente tra loro in quei legni pregiati e, per noi fanciulli non vi era nulla di meglio che trastullarsi con quegli scarti abbandonati sul pavimento.
Il buon professore era un noto intarsiatore, che capacemente sapeva creare magnifici lavori artigianali. Era paziente con noi, insegnandoci a riconoscere il valore di quei legni dicendo da quali paesi venissero e quanto pregiati fossero. Poi ci insegnava come usare quegli scalpelli, affilati come rasoi e ci guidava nei nostri primi rudimentali lavori. A me piaceva ossrvarlo di quanto veloce fosse in quei lavori complessi, ed il modo in cui nascevano dalle sue mani esperte, figure in rilievo ed intarsi elaborati ed espressivi. Nei suoi lavori rappresentava gli animali che vivevano nei boschi Carnici, marmotte, stambecchi, e leggeri caprioli che si inerpicavano sulle rocce.
Appesi alla parete si vedevano altri lavori piu` impegnativi, che raffiguravano la vita delle donne Carniche, intente nei loro lavori campestri con la gerla sulle spalle, e nello sfondo si ergevano montagne, fonti d’acqua sulle piazze, e mille altri disegni che erano la vera rappresentazione di vita di quei tempi. Penso che quella fosse la vera passione del professore (forse piu` che insegnare lingue) ed ammiravo la sua bravura artistica.
Erano altri tempi si sa, ma quello era il nostro piccolo mondo che trovo molto diverso di quanto lo sia oggi. Non si aveva computer ed altri ageggi elettronici, ma eravamo ugualmente, anzi piu`felici. Ci sentivamo liberi di scorazzare tra i boschi ed imparavamo da quanto ci circondava e si era pure capaci di rispettare il creato che ci attorniava, forse di quanto possono essere i ragazzi d’oggi.
Nonna Gigia era ben conosciuta e molto rispettata in Tolmezzo, sicche` era piu` facile per noi, usando il suo buon nome, a bazzicare in case e botteghe nel paese. Offrivamo a loro il nostro aiuto in piccoli lavori e loro riconoscenti trovavano tempo per insegnarci cose utili.
Era questo il modo che si usava per trascorrere il tempo nei giorni piovosi, e quello fu il modo che ci apri` la porta di Ulisse e del suo negozio di fornaio. C’erano mille lavoretti che potevamo fare per lui all’intorno del forno e poi alla fine, quando Ulisse aveva finito l’ultimo impasto della giornata, ci lasciava raschiare quella pasta rimasta attaccata nell’impastatrice, e con quella ci insgnava a formarla in minuti cornetti di pane, che poi, dopo essere ben lievitati venivano deposti sul letto di mattoni ancora arroventato dalle braci. Alla fine come premio erano nostri quei panini freschi e croccanti, con quel buon sapore e profumo di vero pane, che scaturisce quando cucinato tra le braci nel modo di allora, quei giorni passati.
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E` a questo punto che voglio narrarvi del modo in cui Siore Gigiutte e Sior Zuan vennero e si stabilirono in Tolmezzo, in tempi molto lontani che si trovavano a cavallo di quel principio di secolo nel quale la nostra storia inizio`.
Questa e` una storia tramandata a voce, nel modo che si usava in quei giorni passati, prima da parte di mia nonna Gigia a mia madre, e poi, durante il nostro soggiorno nelle isole Fijiane, le tramando` a me assieme alle altre che avete udito e a quelle che narrero` in futuro. In questa storia lascio che sia Mama Antonia raccontare.
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“Come ben sai Carlo, alla Stazione della Carnia si aprono due valli che corrono parallele ed entrambe conducono in Austria. La piu` antica, e` la via che corre lungo la valle Carnica che fu costruita dai Romani, durante le loro espansioni colonistiche e che decicarono all’Imperatore di allora, Julio Augusto. Porta ancora quel nome, Via Augusta, a ricordo per i posteri. Quella strada segue il fiume But e conduce al Passo di Monte Croce e da li` si accede alla provincia Austriaca della Corinzia.
“L’altra Via per entrare in Austria corre lungo la valle del Canal del Ferro, fino a raggiungere Tarvisio per poi di giungere al confine austriaco. In questa valle vi sono paesi antichi, che ricordano storie di guerre sin da quando vi giunse Attila a dar fine all’Impero Romano. E` lassu`, tra quei monti che si trovano paesi che sono stati costruiti con quelle rocce antiche, e la loro gente e` di carattere fiero, temperata alle fatiche di lavori duri come quelle rocce locali. E` la` dove si trovano i paesi di Resia e Resiutta. Negli ultimi due secoli gli abitanti di quel luogo hanno trovato popolarita`in umili lavori artigianali, che purtroppo oggigiorno sono completamente spariti, cosi` noi, nello stesso modo, abbiamo perso molto del colore e calore di quella vita passata. Certamente ti ricorderai di loro; li vedevi arrivare a Tolmezzo all’inizio della buona stagione. Erano gli arrotini, gli straccivendoli, e quei molti venditori ambulanti di frutta e verdura, che nel passato arrivavano puntualmente dall’altra valle, con il loro caretto trainato dall’asinello, per quelli piu` fortunati, e per i meno fortunati erano loro stessi a tirarlo a mano. Venivano ed andavano in paesi lontani, e la loro lingua parlata era un misto di parole raccolte attraverso i secoli dai popoli slavi e da tiranni antichi, che passarono e dominarono il luogo. Era gente provata alle durezze della vita ed erano tenaci. Sapevano, passo a passo, e con santa pazienza raggiungere luoghi lontani, andando di luogo in luogo. Lungo la via prestavano i loro servizi, che sebbene umili erano utili alla gente locale.”
“E come no, Mama, certo che li ricordo e sento ancora il loro grido stridulo che echeggiava lungo le strade del paese, ‘Il guzzin, fuarbis e curtiss da guzzar! (Arrotino, forbici e coltelli da affilare) oppure gli altri, ‘Strasses, robe vecchie oi compri di dut! (Stracci, roba vecchia, compro di tutto) Si` hai propio ragione, ricordo quelle grida lanciate nelle strade. Era parte della vita del tempo, erano macchie di colore che purtroppo sono scomparse per sempre. Ricordo pure “Il gobetto”, alto poco piu` di un metro alto, con un grande cappello e folti baffi grigi, spioventi. Attraverso decenni era divenuto il simbolo di Piazza Santa Caterina. Lo ricordo intento ad arrostir castagne sotto i portici della piazzetta, che poi teneva ben in caldo in spessi sacchi e con voce roca gridava ai passanti, ‘Tistignis!’ (Castagne!) Come potrei mai dimenticarlo! Anche lui fa` parte della mia vita da ragazzo. “Il Gobut” faceva parte della schiera dei “Roseani” che scendevano regolarmente da Resiutte, e lo ricordo vendere per oltre trentanni verdure dal suo carretto, nella stagione estiva, e castagne arrostite durante i lunghi autunni. Lo rivedo in tutto il suo grigiore e poverta` ma quante persone come lui, ci mancano oggi per donare calore all’intorno.”
“Si` propio cosi` Carlo, questo e` quanto volevo ricordarti. Ed ora posso iniziare la storia di Siore Gigiutte e suo marito, Sior Zuan. Anche loro erano Roseani ed anche loro, come gli altri compaesani, all’inizio della primavera sendevano a valle. Ma per loro sin dall’inizio vi fu una piccola differenza, o grande se vuoi, per quei tempi.
“Erano gli uomini che in quei giorni usavano fare il giro dei paesi pere guadagnare quei quattro soldi da portare a casa alla fine della stagione. Mai prima di allora fu vista una donna sulle strade, fintanto arrivo` Gigiutte. Le donne dovevano rimanere in paese ad accudire la casa e i loro figli.
Ma Gigiutte impose il suo volere sin dal primo giorno che sposo` quel povero Zuan.
Gigiutte si mise ben in comando di tutto. Fu lei che con pazienza e saper fare, fu capace a creare nel giro di non molti anni quel piccolo impero che tu ben ricordi. Aveva ragiunto Tolmezzo ancora giovane, le piacque il luogo e decise che quello era il posto adatto per vivere e far affari. Quando tua nonna Gigia affitto` da lei quella piccola casetta, nella quale visse per molti anni, lei, era ormai una donna matura. Era ora la Siore Gigiutte, ed aveva raggiunto l’apice, e all’intorno era riverita da molti con il saluto di “Siore Parone” (Signora Padrona), nome che penso le si addiceva bene, perche` aveva raggruppato sotto il suo nome molte propieta` terriere.”
“Si, la ricordo cosi`. Anch’io usavo rivolgermi a lei nel riverenziale ‘Siore Parone’ come tutti gli altri. La ricordo sempre affacendata e capace nel condurre i suoi affari.”
Propio cosi`, Carlo. Allora ricorderai pure che dalla casa padronale si sprigionava sempre sul cortile quell’invitante profumo di minestrone e di musetto con la brovada (cotechino con rape.). Siore Gigiutte aveva installato una grande cucina al pian terreno con adiacente una larga stanza con tavoli e sedie. Il solaio invece l’aveva trasformato in un largo dormitoio capace di ospitare una ventina di brande per ospitare gli operai scesi a Tolmezzo dai villaggi Carnici e che penso lavoravano nella cartiera locale. Quello era uno delle molteplici vie di un sicuro guadagno e che a lei costava ben poco, poiche`verdure e musetti venivano prodotti dalle sue terre.”
“L’ho sempre pensato che fosse una buona affarista. Quanto era differente il povero Sior Zuan. Lo ricordo con quel perenne sguardo smarrito, dopo che aveva perso completamente la memoria. Stava seduto come un ebete sotto l’enorme gelso nel mezzo del cortile, dicendo nulla e pensando ancor meno. Povero uomo, noi ragazzacci ci prendevamo gioco di lui. Faceva tutto quanto noi, (o meglio gli altri) gli imponevano. Io e Sergio eravamo gli unici a dargli un po di aiuto, conducendolo di qua e di la, come Nonna Gigia ci aveva insegnato.”
“Si, caro Carlo, ma quella non era la sua unica fonte di un buon guadagno. Possedeva un grande negozio di frutta e verdura in paese ed ancora era pure sua la “Trattoria alla Campana”. Te la ricordi vero?”
“Certo che ricordo quel luogo. Era a fianco del palazzo nel quale si trova ora il “Museo Carnico delle Arti Popolari”. Ricordo che nel passato su quel lato della strada scorreva il largo canale della Roggia, e vi erano ponti di entrata di fronte agli ingressi. Era una locanda che consevava vecchie cose Carniche come il tipico “Fogolar Furlan” rialzato da terra, con alte seggiole all’intorno, per sedersi di fronte al fuoco nelle notti invernali. Dal soffitto scendeva una larga cappa per raccogliere i fumi e nel centro di essa vi era una catena annerita dai fumi e dove pentole venivano appese al di sopra del fuoco per cucinare. Ma avevo sempre pensato che quella propieta` appartenesse alla madre di Gigetto.”
“Be quello era quanto la gente in paese credeva, ma quella locanda apparteneva a Siore Gigutte e la figlia la gestiva per lei. Ma ora lascia che ti racconti come veramente quella scaltra donna divenne ricca sfondata!”
“Ma era veramente tanto ricca? La ricordo che vestiva modestamente, nello stesso modo di tutte quelle donne carniche che scendevano dai monti con le gerla dietro la schiena. Non era nulla di meglio di loro, con l’usuale vestito nero, lo scialle sulle spalle pure nero e quel grande fazzoletto nero che raccoglieva strettamente i capelli al di sotto. A vederla non le avresti dato quattro soldi.”
“Si` non lo dava a vedere, ma forse era una tra le piu` ricche donne che vivevano in Carnia allora. Niente era stato registrato sotto il nome del marito il quale legalmente non possedeva nulla. Ma ben si sa, tutto quanto era dovuto alla sua capacita` e alla sua scaltrezza negli affari, cosiche` nel giro di pochi anni fu capace di arricchirsi e poi naturalmente lei ha sempre saputo il modo di portar l’acqua al suo mulino.”
“Capisco.”
“Caro Carlo, sappi che durante le guerre molti costruiscono la loro fortuna e cosi` fu per Gigiutte al tempo della Prima Guerra Mondiale. Quanto ti vado a raccontare ora e` una storia che ben pochi conoscevano, e che la stessa Siore Gigiutte cerco` di mantenere nel piu grande riserbo, e sai perche?”
“E come mai lo posso?”
“Divenne ricca attraverso la prostituzione...No, non fraintermi, no fu lei a prostituirsi, ma bensi fu lei che durante il periodo della guerra, con il tacito consenso dell’Esercito Italiano, apri` due bordelli alla periferia di Tolmezzo per tenere a bada gli istinti maschili della truppa, capisci? Uno era per la truppa ed l’altro, piu` raffinato, accomodava piu` decorosamente gli ufficiali. Che ti pare?”
‘Accidenti, e chi l’avrebbe mai pensata una tale faccia tosta? Ma dove mai trovava le prostitute?”
‘Piu` facile di quanto tu possa pensare. Una volta che quelle case furono aperte e le voci si sparsero per i paesi, molte ragazzotte della montagna, dopo aver udito del facile guadagno, vennero da lei. Le sceglieva bene, sostanziose in carne e dopo una breve erudizione sessuale da parte della prostituta professionista che aveva le funzioni di “Matrona della Casa” spiegava loro di come accontentare rapidamente i clienti. Ed erano cosi` pronte per il loro lavoro giornaliero nel soddisfare i mille bisogni di quei soldatini affamati di sesso. Naturalmente, Siore Gigiutte mai figuro` apertamente nella vita di quei postriboli. Tutto avveniva da dietro le quinte, overossia attraverso le ben pagate Matrone.”
“Capisco la necessita` del buon nome, ed inoltre erano altri tempi, che anche se di guerra, potevano tarnire la vita della Gigiutte.”
“E sembra che quei casini lavorassero pure dopo la Ritirata di Caporetto. Siore Gigiutte non ando` profuga come la maggioranza della gente locale. Penso` bene che aveva troppo da perdere. E cosi` rimase a Tolmezzo a salvaguardare i suoi interessi. Credo che riusci` a negoziare con i Comandi Tedeschi quel servizio necessario alle truppe di occupazione. Dopo tutto soldi sono pur sempre soldi e non conoscono il colore di una differente bandiera, sicche` alla fine lei fu la vincente in quelle ostilita` militari che le diedero quel potere che molti altri persero. D’altronde, mai nella vita si chiede ad un ricco il modo in cui si sia arricchito. Unicamente lo si riverisce, in modo piu` riverenziale per quanti piu` soldi abbia sul suo conto bancario. Credimi, quella e` sempre stata una buona regola attraverso i secoli.”
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