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Il balcone pulsante della fiera

“Il balcone pulsante della fiera” è il caffè bistrot nuovo di zecca che s'affaccia sul lato più corto di una delle due vecchie piazze di Rimini, la mia città d'adozione.
È pieno di specchi, probabilmente una nostalgia da parte dei nuovi proprietari, o una trovata commerciale o un ricordo senza fini letterari del “Bar del Corso” sventrato per l'intero per far posto al nuovo locale di tendenza; Bar del Corso che frequentavo con le prime fidanzatine con il pretesto di assaporare la loro rinomata cioccolata in tazza.
La servivano con le altrettanto famose lingue di gatto di cui mai ho saputo le origini: biscottini piatti e sottili più di una sfoglia di cappelletto, semibruniti sulla superficie e chiari disotto, da inzupparvi solo per metà per far si che non cadessero dentro la stessa tazza in cui la servivano e, spezzandosi, sparissero nel liquido ancora bollente, aggrumato sulla superficie e grinzoso come il viso di una persona ormai anziana per l'effetto caldo-freddo nella variazione di temperatura lungo il corridoio oltre la porta a fili che separava il laboratorio in cui il liquido sobbolliva nel polsonetto ed il locale vero e proprio del bar.
Spesso, se trovavo posto, preferivo far sedere le fidanzatine, in luogo che nei quattro tavolini prospicienti la vetrata sul corso, nella nicchia ricavata a fronte dell'estremità del bancone, dov'era alloggiato un divanetto damascato a due posti in cui ci si doveva sedere costringendo le ginocchia l'uno contro l'altro; che ai miei occhi rappresentava il non plus ultra dell'inizio dell'intimitità tra i sessi.
Era il primo banco di prova della fidanzatina di turno:
Se accettava senza battere ciglio di accomodarsi in quel divanetto, con il bordo evidente dietro le gambe del tavolino ricoperto parzialmente di una tovaglietta di pizzo, la fidanzatina andava oltre; altrimenti, con buona pace dell'investimento in prelibatezze e delizie, la ragazzina veniva lasciata libera di bersi la cioccolata al banco, oppure al primo tavolino libero, fronte o retro alla vetrata sulla piazza Grande.
Alla fine della stagione, tra me e il garzone del bar apprendista pasticciere, mio coetaneo, che pareva un irlandese ed in parte lo era, venivano fatti i conti.
La posta, una birra della sua riserva portata a Rimini da suo nonno.
:- Sette da gennaio a novembre!
:- Io ne ho contate sei.
: Vabbé, facciamo sei. La rossa ha cambiato subito posto: di fianchi non ci stava. Le efelidi che aveva! Comunque, un numero superiore a quante ne avevi scommesso tu. Pareva anche lei un'irlandese ed, invece, originaria al cento per cento della Grotta Rossa.
Per fair play ci eravamo imposti la massima riservatezza su ciò che avveniva una volta usciti dal Caffé. :- Rimini non è mica New York!
:- E difatti io non ho chiesto quante volte ci sei andato al cinema o le hai portate nel campo dietro la ferrovia.
:- Il prossimo anno cosa si fa, si continua?
:- Fino alle superiori; le stesse condizioni!
:- Perché lo fai, di scommettere?
:- Perché sarò sempre uno spaesato: grasso, rosso e irlandese.
:- Bè, nemmeno io sono di Rimini.
:- Per l'appunto!
 
Della nonna materna di Kevin, la fondatrice del bar del Corso, dietro il bancone, aggrappata allo specchio che rifletteva l'entrata ed i bicchieri scintillanti lavati ogni sera alla chiusura, appoggiati su tovaglioli di stoffa colorata e stirata per proteggerli dall'infiltrazione della polvere, pendeva una grigia fotografia in bianco e nero in cui era ritratta, dritta ed impettita, e piatta di petto quale uno stelo di granturco, a fianco di un carrozzino munito di pedalò, (di quelli che anch'io ho fatto in tempo ad ammirarne e goderne la piacevolezza nella mia prima infanzia) una gelatiera ambulante cromata, a due sole cupole, quasi sicuramente gusti nero e bianco.
Era ritratta da sola, con un cappellino di paglia legato da un nastro attorno al collo per proteggere il capo dal caldo.
Sebbene trovassi quella foto ridondante e leggermente aggressiva, ogni volta che entravo nel bar di Kevin, non potevo fare a meno di confrontare la figura sbiadita di questa sua nonna pioniera con la foto della mia nonna paterna, appesa nell'angolo più lontano dalla finestra del soggiorno.
Trovavo vaghe somiglianze tra questi due volti: nell'ovale del viso, deciso ma dolce, nella forma del mento squadrato, ma non troppo, in quella propensione volitiva a tenerlo ben dritto, perpendicolare alla linea del collo.
 Il Diego che era in me, inutile nasconderlo e far finta di niente, trasaliva a volte o sembrava ridestarsi da un sogno interrotto, richiedermi uno sforzo ulteriore di concentrazione, ogni volta che entrando m'appoggiavo senza causa, al banco dietro cui si trovava lo sgabuzzino della pasticceria. Quella sosta momentanea davanti al grande specchio l'avevo comunque trovata, ogni volta che m'era capitato di entrare nel Bar del Corso, un gesto necessario, insopprimibile.
 
Questo Diego era il mio nonno paterno, ed era stato il marito morto giovane, lasciandola comunque con cinque figli ancora da allevare, di questa mia ava la cui foto, appesa quasi in disparte sulla parete del soggiorno di mia madre, mi veniva richiamata in quelle occasioni in cui avevo l'opportunità di entrare, attraverso l'intercessione di Kevin, nel suo bar sulla Piazza.
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