Ricordo di avere sentito parlare di lei per la prima volta in luglio, pochi giorni prima che partissimo per la luna di miele.
Durante quel viaggio in India le domandai se volesse spedirle una cartolina ma rispose che non era necessario, ad Anna le cartoline non piacevano.
“Ciao Anna, tutto bene! Siamo stremati ma è stato bellissimo! Peccato tu non sia potuta venire alla cerimonia. Ti saluta il mio maritino Diego, ci vediamo nel pomeriggio per un caffè?”.
Mi domandavo che tipo di lavoro svolgesse Anna, dato che erano solite incontrarsi ad orari e luoghi sempre diversi.
“Devo fartela conoscere amore mio! È davvero una forza della natura”.
Eppure, quelle volte che il fatidico incontro tra me e Anna aveva data fissata, veniva sempre rimandato per imprevisti dell’ultimo momento.
“Tesoro ti scoccia se questa sera vedo Anna? Tanto ogni volta che hai una riunione mi lasci sola a casa minimo due giorni”.
Mi chiedevo spesso se e quanto alimentassi in Laura sensazioni di trascuratezza. Sensazioni, forse, fondate. Almeno per quella che era la sua visione di vita.
I primi tempi sembrava assecondasse con entusiasmo la possibilità di potermi seguire in convegni e conferenze; era solita intraprendere facilmente conversazione con i presenti e questo doveva farle pesare meno l’attesa del ritorno a casa.
Anna fumava. Lo sapevo dall’odore impregnato sui vestiti di Laura.
Cos’altro conoscevo di lei?
Poco o niente. Cambiava spesso numero di cellulare; colpa, a detta di Laura, delle molestie di un ex fidanzato. Era appassionata di giardini, creme e camicie rosa.
Faceva molti più regali a Laura di quanti ne facessi io.
“Ciao Anna, vieni da me a guardare Honey questa sera? Che il maritino non c’è”.
Le mie titubanze giunsero in autunno, improvvise e senza precisa motivazione.
Quella sera, mentre Laura era sotto la doccia, sorpresi il suo cellulare sul comodino della camera, lo presi con sufficiente decisione e, sbirciando nella rubrica, annotai su un foglietto di carta il numero di Anna. Confesso di avere guardato anche tra i messaggi.
Sentivo il forte desiderio di volerle telefonare, anche solo per sentire la sua voce.
Non capivo bene cosa stesse accadendo, solo non mi fidavo più delle parole di mia moglie.
Ci salutammo per forza di cose prima che arrivasse Anna perché dovevo prendere il treno alle nove e lei, guarda caso, sarebbe giunta a casa nostra per le nove e trenta.
Salutai Laura, anche i nostri baci si erano fatti freddi, gli abbracci rigidi e impacciati, lo sguardo perso altrove durante i nostri oramai pochi e seri discorsi. Quando la sera, di fronte all’imbarazzo della cena, ci raccontavamo le nostre giornate, non potevo fare a meno di notare la sua lontananza. E poi i messaggi nascosti, le telefonate in stanze il più lontano possibile da dove mi trovavo, la casella e-mail chiusa in fretta e furia ogni volta che giungevo alle sue spalle…
Mentre aspettavo il treno, assalito da pensieri e sfiducia, raggiunsi una cabina telefonica e provai a telefonare ad Anna.
“Pronto?”
“Pronto, Anna?”.
La chiamata cadde. A rispondere, ad ogni modo, fu la voce di un uomo. Provai di nuovo:
“Pronto?”
“Cerco Anna”
“Anna è in bagno”
“Chi parla?”
“Un amico”.
Questa volta fui io a chiudere la comunicazione.
Un amico, ma chi ci credeva? Anna non era Anna. E adesso che fare?
Decisi di abbandonare il viaggio e di ripartire l’indomani all’alba, sarei rientrato a casa con la scusa del treno soppresso. Quantomeno avrei scoperto chi era veramente Anna.
E invece Anna non c’era; straordinari sul lavoro.
Mi coricai senza chiudere occhio tutta notte, fissavo la schiena di Laura nel letto, mi perdevo in favole fatte di sesso e tradimenti in compagnia del soffitto della camera.
La sveglia suonò prima del previsto; non disturbai Laura, mi levai, uscii di casa e tornai in stazione. Quel pomeriggio provai a richiamare il numero di Anna: inesistente.
Chissà cosa si erano detti Laura e mister chissà chi parlando di quanto successo, chissà quanto avevano riso di me.
“Ciao amore, come va il lavoro? A che ora torni questa sera?”.
Eppure non siamo sempre stati così. Una volta ci amavamo, una volta mi amava anche lei e credo pure con sincerità.
Io infondo l’ho sempre amata. Sempre e di più. La amo ancora e, forse, la amerò per il resto della mia vita. Lei è il mio mondo, il mio punto di riferimento su ogni cosa. Anche perché, a differenza sua, non ho mai avuto troppi amici e quei pochi che hanno provato ad esserlo oramai sono meteore.
Ricordo come fosse ieri il suo arrivo in paese, l’iscrizione alla medesima università, i viaggi in treno, quella festa delle matricole dove ci baciammo per la prima volta.
Era una bella storia, allegra, libera. Viaggiammo molto e, nonostante fossimo caratterialmente diversi, litigammo pochissimo durante questi sette anni.
Cosa era cambiato? Forse l’abitudine? Forse un ripensamento su una vita intera fianco a fianco? Forse, semplicemente, non mi amava più?
Quante persone si saranno fatte queste domande. E questa volta è toccata a me.
“Nessuno muore vergine, la vita incula tutti prima o poi”.
Il destino sembrò venirmi incontro quell’indimenticabile 14 novembre; la riunione aziendale finì in anticipo ed io potei anticipare il treno del rientro.
“Tesoro! Sono a casa”.
Anche lei lo era, in compagnia di Giacomo, la nostra amica Anna.
L’ira ebbe la meglio, cosicché scaraventai a terra Laura e mi lanciai sul suo amante, suo ex collega di lavoro, ancora nudo nel mio letto.
Non avevo mai picchiato nessuno nella vita e capii quel giorno che, quando si usano le mani con violenza per la prima volta, si usano male. Gli ruppi naso e mandibola e, per tutta risposta, mi slogai un polso e tre dita.
Le mani mi continuarono a tremare, gonfie e rosse, per giorni e giorni, mentre attutivo il colpo della più grande delusione mai provata sino ad allora. La mia vita, la nostra vita, tutto rovinato per sempre. Tutto. E per sempre.
Non si poteva tornare indietro, non si poteva fare finta di nulla; la nostra sola possibilità concessaci era andata perduta.
Ero contento. Sorridevo al pensiero di avere quasi sfigurato il volto dell’amante di mia moglie. Sorridevo al pensiero del dolore che aveva provato in quegli attimi.
Ero contento. Ma non ancora del tutto. Per la prima volta nella vita desiderai la morte di qualcuno; avrei gioito nell’apprendere che il suo amante Giacomo era mancato per complicazioni. Ciò invece non avvenne e, forse, è stato meglio così. Forse.
Amore e odio; odiavo con tutto me stesso la persona che continuavo ad amare con tutto me stesso. Una persona che avrei voluto vedere piangere per il resto dei suoi giorni, alla quale avrei augurato ogni sorta di maleficio, facendolo comunque con devozione. Tu sia maledetta a vita, mio unico e grande amore!
Che tu possa svegliarti una mattina ed osservare inerme allo specchio i mutamenti dei lineamenti del tuo viso, sino a constatare che il volto infine plasmatosi sul tuo è il mio!
Ti amo. Ti odio.
Era dunque questa la pazzia, la vera pazzia? L’insana condizione mentale che tanto cerca di nascondere questa nostra società che si autodefinisce civile?
Piansi tanto. Versai lacrime di rabbia, di tristezza e dentro me una voce si faceva sempre più forte ogni volta che pensavo a Laura: “Puttana”.
Certe volte bisogna sbagliare treno per capire di avere sbagliato tutto nella vita.
- Blog di Mirko Zullo
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