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Se si vede, allora è morto.

Diciamo che le cose sono fatte di atomi, cellule, tessuti eccetera. Sbagliato. Le cose sono fatte di sapere che le cose sono fatte di atomi, cellule, tessuti eccetera. Questo loro esser fatte è incompatibile con l’assenza di coscienza di tale peculiarità: esse sono fatte all’occhio di una coscienza, altrimenti sono lettera morta. Questo è tanto più rilevante se prendiamo in osservazione un nostro membro fisico. Si dice: abbiamo un cuore, un cranio, una scatola toracica. Ma questo è praticamente indimostrabile. Se tali “oggetti” fossero visibili, io, che ne sono l’ente legittimo ed essenziale, non potrei evidentemente vederli. Ma se è sempre “io” colui che guarda, qui stiamo parlando di oggetti che non si vedono e che non si possono “dimostrare” scientificamente. Posso soltanto presumere di esser fatto in quel tale modo e augurarmi, in caso di necessità, che tutto ciò che ne ho sempre saputo corrisponda effettivamente a ciò che “serbo” in me. Ma tutto questo, appunto, non è che un sapere: essere è questo sapere.
Lo stesso ragionamento propone Hegel laddove parla di frenologia, sconfessandola. Rilevando quindi i limiti della “ragione osservativa” che, guardando le cose dal di fuori, non può che operare delle ricognizioni “estetiche” o “geografiche” dell’essere (parole mie), mancando il cuore del concetto. Ma tale è il linguaggio della stessa scienza che lui per primo vorrebbe incoronare sulla testa della filosofia. Una scienza che, al giorno d’oggi, è in grado sì di operare una ricognizione certa della geografia del corpo umano, e quindi di mostrarmi parti di me stesso che sono certamente dentro me stesso. Tuttavia, come Hegel notò già, non ostante tale scienza fosse soltanto all’alba del proprio percorso, niente può dirmi come tutti quei “pezzi” di me stiano insieme e funzionino e resta comunque che anche questo sarebbe soltanto un dire, ri-dimostrando che qui abita l’essere, e non lì. Gli oggetti (tra i quali il mio stesso corpo) sono concetti, e l’arca che li trasporta è il linguaggio.
Questa stessa considerazione ci porta al principio di morte che necessariamente l’oggetto trascina con sé. La morte degli oggetti consta appunto della loro incompatibilità con la nomenclatura che noi abbiamo loro imposto. Il che vale a dire che è l’aura della coscienza a implementarli nell’esistenza. Altrimenti essi stanno come rimossi in una sorta di limbo innominato, analogo all’altrove astronomico dei fisici. E in quanto morti, essi trascinano con sé un che di morto, un sentore luttuoso che chiama angoscia ai nostri sensi disperati. Lo si evince dal senso di rivincita con cui si tenta l’inversione di tale angoscia nel possesso. Possedendo gli oggetti, li si priva del loro totem funesto. Essi recano la morte in sé: assoggettandoli al mio possesso vivo, li piego al mio codice, ribaltandone la valenza. Ossia, mi illudo che vada così. La controprova che di illusione si tratta viene dal riscontro del più alto termine di possesso a libito dell’uomo, il possesso sessuale.
Posto che il possesso muove dal desiderio, e che è quest’ultimo il portatore del rimosso- con al culmine la rimozione-principe del vivente, cioè la rimozione dell’”essere per la morte”, del fondamento mortale di ciò che è vivo e per cui è vivo-, il desiderio fa da traino a tutta questa complessa architettura in movimento verso il possesso, inteso come amuleto che scongiuri quel “pericolo di morte” sotteso al mondo degli oggetti, là fuori, di cui l’alter sessuale sia il capostipite.  L’alter, cioè la controparte sessuale, quella in grado di rifornirmi di piacere: è lei il primo “oggetto” a muovere il mio desiderio verso il possesso. Questo piacere è il piacere di dar scacco alla morte ed è quindi immerso in un’aura “bellica”, per così dire, in cui il maschile si colora di sadismo, e il femminile di sacrificale. Il punto di partenza del concetto di possesso è la lotta contro la morte che, previa il medium del piacere, cerca di opporre al mondo della “cosalità”, ossia oggettivo e quindi “morto”, la sua “macumba” apotropaica, cioè una specie di pupazzo metafisico che sottoposto alla mia  proprietà, verrebbe così neutralizzato. Così ci si illude di condurre, attraverso l’atto di proprietà, il mio sul terreno dell’immortalità. Ma invece succede che giunto all’apice del possedere, quando possiedo “la mia donna”, ovvero “il mio uomo”, ecco che il momento superno del piacere si capovolge esattamente nel proprio estinguersi: esso coincide con l’atto di morte di chi prova piacere. Il piacere del godimento, ossia del massimo possesso dell’oggetto del piacere, trascina chi gode fuori dal suo sé e lo immette in una “pulsione di morte” in cui chi gode è il proprio auto-annientamento. E questi è appunto quegli che voleva il possesso, che viene invece preso e portato via dalla sua propria coazione a ripetere. 
Questa inconscia necessità di scongiurare la morte proiettata su di noi dalla inerte “cosalità” che ci circonda, attraverso la sottomissione di tale oggettività priva di esistenza al nostro dominio proprietario, e che comunque non scalfisce neanche il pericolo che vorrebbe scongiurare, trova espressione nella comune concezione della ricchezza. Come se sottomettendo le cose alla mia potestà esse perdessero la loro imperscrutabilità e si convertissero in pezzi palpitanti di me, loro legittimo detentore. Ecco perché, invece, i soldi non fanno la felicità: le cose vere sono i concetti e chi detiene questi ultimi è il vero fruitore della signoria che essi dispensano. Gli oggetti nominati dai concetti sono il lato povero, minimo della faccenda. Chi si limita a questi, fa da sponda alla propria morte, coltiva la propria abolizione, illudendosi di sopravvivere soltanto grazie al loro dominio, un esercizio che, essendo quelli la morte, non può che recar morte a chi li possiede.
      
  

 

 
 
 
 
 

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