Scritto da © Scintilla Elis - Mer, 12/03/2014 - 10:41
In mezzo a tutte quelle coincidenze che chiamo segni
ho camminato con riccioli di spago rosso sottobraccio
facendo nodi stretti e lasciando tracce a olio, fino a qui
dove i fili tirano col vento
intrecciati ai polsi, alle caviglie
ai rami degli alberi e legati intorno ai sassi
per quando ho bisogno di avvicinarmi al dolore
ed entrare negli spazi privati di un dubbio
dove si chiude e si arrende
l'origine di un pensiero
abbandono la presa
quando ho bisogno di sentire meglio
tutto ciò che dimentico; non come i baci sulle mani
o le viole regalate in un messaggio scritto
senza il desiderio urgente
di vederle o annusarle
quelle crescono già dentro, nel momento in cui
lasci posare i semi nella mente
e la lingua sul palato
ma senza vento, abbandono la presa
quando ho bisogno di arrivare alla radice di una lacrima
per scoprire se la sorgente è pura, e non
sporca come quando cade
abbandono la presa
per scivolare sull'angolazione esatta di una curva
lì dove batte la sponda a limarsi le ossa
e il tufo, a linee corrose, che morde
fino a farsi male ai denti
e poi, ogni giorno diversa, e diversa in due minuti
sempre uguale, cambio anche d'aspetto, sempre lontana
dal luogo dove sono, riesco a stringere il mondo in una mano
una favola di catrame, l'esistenza, che al mattino s'incastra negli occhi
ma arrivata qui, abbandono la presa, dimenticando la cima
in mezzo a tutte quelle coincidenze che chiamo segni
mentre disperdi vetri colorati e schegge a frammenti
lascio il passato, abbandono la presa
l'assenza mi riempie, e tu
scorri sempre più chiaro
e d'amore evidente
come l'anima che brucia in uno specchio, e nello specchio, si raccoglie.
In mezzo a tutte quelle coincidenze che chiamo segni
ho camminato con riccioli di spago rosso sottobraccio
facendo nodi stretti e lasciando tracce a olio, fino a qui
dove i fili tirano col vento
intrecciati ai polsi, alle caviglie
ai rami degli alberi e legati intorno ai sassi
per quando ho bisogno di avvicinarmi al dolore
ed entrare negli spazi privati di un dubbio
dove si chiude e si arrende
l'origine di un pensiero
abbandono la presa
quando ho bisogno di sentire meglio
tutto ciò che dimentico; non come i baci sulle mani
o le viole regalate in un messaggio scritto
senza il desiderio urgente
di vederle o annusarle
quelle crescono già dentro, nel momento in cui
lasci posare i semi nella mente
e la lingua sul palato
ma senza vento, abbandono la presa
quando ho bisogno di arrivare alla radice di una lacrima
per scoprire se la sorgente è pura, e non
sporca come quando cade
abbandono la presa
per scivolare sull'angolazione esatta di una curva
lì dove batte la sponda a limarsi le ossa
e il tufo, a linee corrose, che morde
fino a farsi male ai denti
e poi, ogni giorno diversa, e diversa in due minuti
sempre uguale, cambio anche d'aspetto, sempre lontana
dal luogo dove sono, riesco a stringere il mondo in una mano
una favola di catrame, l'esistenza, che al mattino s'incastra negli occhi
ma arrivata qui, abbandono la presa, dimenticando la cima
in mezzo a tutte quelle coincidenze che chiamo segni
mentre disperdi vetri colorati e schegge a frammenti
lascio il passato, abbandono la presa
l'assenza mi riempie, e tu
scorri sempre più chiaro
e d'amore evidente
come l'anima che brucia in uno specchio, e nello specchio, si raccoglie.
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