Scritto da © Stefania Stravato - Dom, 01/04/2012 - 17:21
Fu il bianco delle dita, macchiate appena di un tremito, a scioglierle il bruno delle trecce e caddero, una ad una le stelle che erano rimaste impigliate, come inganni d'oro tra le curve d'onde che si alzavano, si piegavano e risalivano i nevai e i falò inchiodati nella sua notte. Nuove lune si sarebbero spogliate ancora agli occhi degli amanti in un tramestio di galassie, gonfie e lucenti perle, gocciolanti di eterne illusioni. Sì, avrebbero pianto il suono primitivo inabissato nel ventre del buio, forgiato dal gelido fuoco del dolore, poi.
Poi. Le ceneri di mille rose bianche avrebbero tinto i soffitti di vetro dei più remoti prati e i profili viola di tutti gli orizzonti, i pallidi profili delle madonne antiche e perfino le corde brunite di un violino sepolto. Poi. Le ellissi roride del fiato più dolce, che si offrivano impavide alla maledizione delle folgori, sarebbero esplose della luce più superba, un istante di eterno a crocifiggere diamanti sui palmi, un istante di eterno a scolpire baci di cristallo tra le righe imperfette di preghiere inascoltate.
Sapeva dei rubini fusi al filo di una lama, che avrebbe reciso la furia alle radici, lì dove nasce il profilo dell'onda scura che travolge il verde tenero di steli, turgidi d'innocenza ad accennare brevi sembianze di primavere.
Così chiese soltanto:''Quando?''.
E si spiegò, altera ombra d'ali, sull'alabastro disciolto dell'assenza.
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