Scritto da © ferdigiordano - Mar, 10/04/2012 - 18:11
Le indicarono il suo autoritratto. Le chiesero perchè fosse uscita dalla tela. In realtà vi era entrata a mani nude con tutti quei colori che si portava dietro nelle iridi la domenica con lo sguardo da passeggio.
La temevo.
Appariva inaspettata come, nell’antro della notte muta, si apre un crepaccio di rumore. A scanso di equivoci, illustro quella apparizione di abiti lisi malamente aggiunti e sottoposti ad una criniera di covi, dove partono grida di fili castani spaventosi.
Penso che nemmeno al demonio fosse nota, ma a noi del tavolo d’angolo davanti al bar coppola dava segni di uno squilibrio creativo che non si vedeva dai tempi di Sivori e delle sue veroneche.
Dipingeva facce strane.
Non era un fatto di gusti, né che le mancasse esercizio di dita. Le piaceva somigliarli a gigli. Alcune più lunghe, credo, però sempre volti di uomini cupi, pur se fiorivano stami gialli gli zigomi.
Disegnò anche me, dandomi l’aspetto di oggi, per questo non volli tenerlo. Aveva visto dove la morte segna i suoi punti sulla lavagna del viso. Anticipò quanto non le sarebbe piaciuto di me. Mi stava come la pelle di oggi. Certo non sono invecchiato per questo.
Ancora adesso la vedo così: osservo come poggia al bicchiere un cartoncino d’amalfi e con tre-pastelli-tre il foglio si anima da una purezza insostenibile.
Dice sempre: “la vita è sorsi di caffè: scuote il nervo con l’amaro violento. Corrobora la sua acidità con grani di zucchero dietetico e il dolce appare falso dove immergi la lingua.”
Si rivolge affabile a noi chiedendo come cazzo facciamo alle quattro di tutte le albe a scrollarci di dosso la notte. Era estate: non c’è bisogno di usare la gomma; ma come cazzo faceva lei ad essere viva ad ogni ora!
Pochi capivano l’uso delle cere: lei viaggiava a colori. Mai interi, li fondeva insieme:- Il bianco nel graffio circonda l’isola del sorriso -, diceva.
Pochi ritraggono attimi senza segnarsi il minuto d’inizio. Lei lo faceva incurante della meridiana pensiero.
Qualcuno di noi l’amò disperatamente fino al punto da lasciare una rosa al suo tavolo. Si sedette con la commossa meraviglia che il sole può dare alle finestre inadatte alla neve.
La vedo come fosse ora: si cala e l’avvampa la visione del fiore. Con due lampi di cera ocra e rossa disegna la sua passione, in un angolo versa il suo caffè dal tremore istintivo e vi pone scaglie di terra dal vaso. Striscia con due dita tutta la carta e vi piange sopra.
Non ho ancora capito cosa fosse, ma aveva un gran dono: la purezza del Salve Regina nel mattino salutato dal sole che nasce da solo.
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