Scritto da © ferdigiordano - Mar, 27/03/2012 - 18:21
Rapidi schizzi diventavano mura. Suppellettili eseguiti da grafite. Tinte acquose per le stoffe. Onomatopee sillabiche sugli intonaci. Disegnava case e interni, che non furono mai il suo: non poteva sommarsi ad una semplice carta. Ci provo io, qui, ma uso un lapis inefficiente, vedrete.
Stava spalle alla finestra come un profilo di strada tortuosa che sale dal basso Cilento al cielo di Orria. Ovvio doverla poi ricordare ancella di terracotta.
Dai seni si origliava il suo verbo pulsante, la commissione del sangue, il suo giro nella località del piacere. Con difficoltà, ma era giusto ritenere che almeno la parete di pelle fosse una seta artigiana, il drappo sottostante la cotta, l’armatura del duello.
Tiranneggiava dai fianchi, si vendicava sugli omeri o col sottile malleolo; debitamente poggiata nelle fibre nervose, era levigata e lucente. Seria, ulcerava il desiderio.
Spesso, lontano dagli occhi, accadeva ai campi. Li impregnava di messe. Una luminosità rara che anticipava la sacra rosa. Aveva, all’epoca di aprile, tutto il sole di luglio e persino quella stella la raccoglieva da terra come di raggio restituito al mittente o come, da epopee caravaggesche, fluissero attese folate di luce legate a ciocche.
Apparivano in ogni ipotesi di aria mossa, poi subito via per darsi un contegno o fare il miraggio.
Quando lei annuiva, quando sulla platea del collo la sua messinscena di risa ideava la ruota, migrando gli zigomi a destra e a manca, avresti forzato il costato per esserle osso. No, non fino al punto che esplica la vita: soltanto,volevi starle negli occhi e prendere possesso della più breve sillaba che le sorgeva in mente.
Avresti voluto cancelli prima delle labbra, avresti voluto che i denti fossero stretti, contrari alla fuoriuscita dal suo corpo.
Le diedi il mio respiro perché mi facesse aria, la sua aria più prossima.
Abbandonò il mio nome in un flebile ci rivediamo poi, come verifica settembre le fughe dalle rive.
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