Scritto da © Hjeronimus - Gio, 03/11/2011 - 22:00
Ecco, oggi ascoltavo Tannhäuser, tentando di muovere le mie pedine verso Wagner per vedere, per comprendere se c’era qualche filo, o qualche accetta, in sospeso tra me e lui che non avevo mai avuto voglia di dissotterrare ed esporre alla luce. Qualcuno diceva: Wagner e il nazismo; oppure: Nietzsche e il nazismo. E io stesso avevo scritto su un giornale : Orff e il nazismo. Ecco: è il senso di quella “e” che chiama qui in causa. Cosa significa “e il nazismo”? Bene, significa qualcosa di pregnante, di intrinseco, che non riesce a divincolarsi da quella ”e” quando pronunciamo quei nomi così fondamentali all’”orizzonte degli eventi” novecentesco. Così, se leggiamo Nietzsche, se ascoltiamo Wagner, non riusciamo a sopprimere quel fastidio che ci ronza nell’orecchio: perché lo facciamo, se sono nazisti? Già, ma lo erano?
Guardiamo le date: Nietzsche conclude l’avventura della sua ragione cosciente nel 1889, e morirà undici anni dopo in una totale assenza di sé. Wagner era già trapassato nel 1883. Ossia, mezzo secolo prima dell’avvento di Hitler. Di Nietzsche sappiamo che non lui, ma la sorella aveva aderito alle “nobili” concezioni del cane idrofobo di Braunau. Di Wagner abbiamo sentito del suo antisemitismo, dal che deriva, nel suo caso, l’araldica di quella “e”, che però è qui del tutto cerziorata dalla documentazione storica. Nietzsche invece deride gli antisemiti come Wagner e li disprezza. L’unico caso in cui quella “e” calza a pennello è quello di Orff, il quale, durante il nazismo, ebbe successo.
Ma per Wagner, siamo troppo lontani dall’affermazione del nazionalsocialismo e, per quanto i suoi parenti vi fossero invischiati e Hitler stesso lo considerasse un suo antesignano, è arduo andare a pesca di nazismo sulla barchetta lucernese di Wagner. Eppure, quella “cosa strana” del nazismo, quel quid di infero e di sublime che ancor oggi incanta gli allocchi, è possibile, è verosimile rinvenirla in quella musica, in quel cocktail di beceraggine e di esaltazione mistica che spira dalle sue note. Qualcosa che è presente nello spirito di tale musica, così come pertiene oscuramente all’essenza stessa della germanicità. È così che Wagner, senza neanche accorgersene, trascina nell’Opera tedesca dei sintomi, che lui ritiene benefici, di una certa autenticità dei Tedeschi che inclina all’apocalisse. I sintomi di una assurda malattia tedesca, contaminante fin nella religione, che cerca alacremente di far tutto per benino, salvo che il fine è una specie di angelo sterminatore che abbatte tutto, cose, vittime e carnefici. Una sorta di radicale difetto di speranza che induce bene e spesso all’umanitarismo e al solidarismo, ma che può sempre ribaltarsi in vendetta e rovesciarsi, come cavalieri dell’apocalisse, sull’umanità più inerme e indifesa, se non su e contro se stessi, auto-identificati come latori stessi della negazione della speranza. Una disperazione passibile di diventare epica e tenebrosa sfondando nell’allucinazione. Perciò l’arte tedesca è così visionaria. Perciò la morale tedesca è così severa e rigorosa. Perché vi incombe sopra un “angelo delle tenebre”, una divinità intelligente che vorrebbe il bene- ma non riesce, e allora si “abbandona all’ebbrezza infernale” (Thomas Mann, Doktor Faustus).
Entriamo nella casa di Wagner: siamo accolti dagli echi del Walhalla, ossia dagli accordi dell’Ouverture del Tannhäuser. Quando quei fiati risuonano, stemperando cascate di violini dalle loro monumentali sommità, ecco che scorgete una cavalcata di eroi sbrigliarvisi davanti. Sono gli eroi della potenza crucca. Una sguinzagliata di geni severi sotto le cui occhiate cupe e grandiose si spiaccicheranno i vostri timidi sguardi di turisti terrorizzati. Perché c’è un perché che si sporge da quegli sguardi come dalla Nordwand dell’Eiger, la più spericolata parete alpina: è lo sguardo della missione germanica sulla faccia del mondo. La stessa missione di Rosenkreuz di quasi mille anni fa; la missione sacro-romano-imperiale di salvare la Gerusalemme Celeste. Vale a dire: laddove i Romani hanno fallito, salvare la civiltà occidentale dalla barbarie incombente da est. E chi altri si insignirà di una tale missione se non i Tedeschi, gli ultimi dei Romani, gli ex-barbari? Riscattando così la propria barbarie?. Eccolo quel perché. Ecco il senso del severo cipiglio missionario dell’uomo tedesco, del Wanderer, del viandante della foresta, come dice Canetti. Ecco qui il compito che egli si è assegnato nel mondo: la grave ambascia della salvazione universale, il Graal della redenzione dell’umanità. Ecco il domino del viandante nella foresta, ossia dell’uomo tedesco: l’anelito alla redenzione. E se non riesce… tutti giù per terra. E con l’aggravante che la missione storica dei tedeschi è incrinata sin dalla sua formulazione dal complesso storico dei tedeschi, quello di aver dovuto sempre inseguire i romani, prima, e poi gli italiani, di arrivare sempre secondi (come nel football). Un complesso che da oltre due secoli non ha più senso, ma che fin lì aveva sempre soffiato nelle orecchie dei nordici la maledizione di restare indietro, lasciando lunghi strascichi dietro di sé. Una piccola “rata” del “problema tedesco”, se vogliamo, ma che fa tutt’uno col senso razionale della missione- perché un missionario è anzitutto uno a cui manca qualcosa.
Ora però, quelle trombe di poc’anzi, quelle wagneriane, ci tallonano, ci marcano stretto, e noi cominciamo a captare nel fascino oscuro che ci sfiatano addosso quella “anomalia” di cui parlavamo in apertura. Sì, in quell’eroico clamore di trombe solenni e di violini sciabordanti sentiamo risuonare quella “cosa strana” del nazionalsocialismo che ancor oggi, ancor dopo tanti anni dalla sua apocalittica apoteosi, seduce e ammalia le menti più deboli, le persone più impreparate, innocenti, nullatenenti; le miriadi di Kleinermann accatastate come campionari di indigenza dentro megalopoli turpi, guaste e malfamate. Drizziamo bene le orecchie: che cos’è ‘sta “cosa strana”? Ci insinuiamo dentro le viscere della casa di Wagner e ci monta un sospetto che lì, nel buio, comincia a diradare le ombre: si tratta del non sapere di qualcosa. È ignoranza, è penuria culturale. Tutta la perfetta macchina tragica wagneriana nasconde e omette la conoscenza della tragedia, portandone in scena soltanto la coreografia. Si rifiuta di affrontare la sfida della tragedia, è troppo vigliacco, quindi fugge, si eclissa, s’accuccia nel nascondiglio del mito onde evitare l’incontro leale con la realtà.
Ma la fuga dalla realtà genera mostri puerili, e quando il pensiero “selvaggio” ricusa il suo atterraggio nella maturità, si auto-respinge in un mondo mitico, fatto sì di eroi e fanciulle leggendari, ma incompleto, carente, in una parola falso, il cui sigillo imperiale è quello del sadomasochismo. Così il tragico si volge in retorica e, sia pur questa esteticamente riuscita e convincente (anzi, tanto più quanto più lo è), la sua macchina diventa quella della propaganda- per un massacro...
È questa la cosa strana insinuata nella musica di Wagner, questa facilità, questa esemplificazione puerile dei temi che, invece di essere affrontati, vengono ricoperti di estasi scantonanti, narcotizzanti, adulteranti. Così, il problema tedesco, non è più un problema: è una virtù, una predisposizione all’apoteosi, appunto, che già alla radice è immediatamente epica, senza preoccuparsi troppo dei dettagli storici, psicologici ed epistemologici. Ecco un modo rozzo di fare cultura alta e tuttavia atroce: è questa la cosa strana.
Così Wagner inciampa in Spengler e questi in Tolkien e questi in Orff e quest’ultimo inciampa nel nazismo, fornendogli l’adeguato apparato sonoro- e il sarcasmo feroce, la parodia assassina di se stessi, che il Terzo Reich mette in scena con lo scherzo atroce, ma vero, della Endlösung, della soluzione finale, il gesto puerile dell’ecatombe di sei milioni di innocenti per futili motivi, come si dice in termini giuridici quando si vuole sottolineare la particolare abiezione di un colpevole.
Su “Schindlerslist”, il film sui Lager, quando Höss, comandante in capo del Lager, sparacchia a caso contro gli internati ebrei, uccidendoli per provare la mira, la ragazza ebrea costretta a dividere il letto con lui gli dice di smetterla di fare “Il bambino stronzo”. Ecco l’espressione è perfetta. E si adatta perfettamente anche a Richard Wagner, perché anche lui, di cui apprezzo grandemente il genio, era un bambino stronzo…
Guardiamo le date: Nietzsche conclude l’avventura della sua ragione cosciente nel 1889, e morirà undici anni dopo in una totale assenza di sé. Wagner era già trapassato nel 1883. Ossia, mezzo secolo prima dell’avvento di Hitler. Di Nietzsche sappiamo che non lui, ma la sorella aveva aderito alle “nobili” concezioni del cane idrofobo di Braunau. Di Wagner abbiamo sentito del suo antisemitismo, dal che deriva, nel suo caso, l’araldica di quella “e”, che però è qui del tutto cerziorata dalla documentazione storica. Nietzsche invece deride gli antisemiti come Wagner e li disprezza. L’unico caso in cui quella “e” calza a pennello è quello di Orff, il quale, durante il nazismo, ebbe successo.
Ma per Wagner, siamo troppo lontani dall’affermazione del nazionalsocialismo e, per quanto i suoi parenti vi fossero invischiati e Hitler stesso lo considerasse un suo antesignano, è arduo andare a pesca di nazismo sulla barchetta lucernese di Wagner. Eppure, quella “cosa strana” del nazismo, quel quid di infero e di sublime che ancor oggi incanta gli allocchi, è possibile, è verosimile rinvenirla in quella musica, in quel cocktail di beceraggine e di esaltazione mistica che spira dalle sue note. Qualcosa che è presente nello spirito di tale musica, così come pertiene oscuramente all’essenza stessa della germanicità. È così che Wagner, senza neanche accorgersene, trascina nell’Opera tedesca dei sintomi, che lui ritiene benefici, di una certa autenticità dei Tedeschi che inclina all’apocalisse. I sintomi di una assurda malattia tedesca, contaminante fin nella religione, che cerca alacremente di far tutto per benino, salvo che il fine è una specie di angelo sterminatore che abbatte tutto, cose, vittime e carnefici. Una sorta di radicale difetto di speranza che induce bene e spesso all’umanitarismo e al solidarismo, ma che può sempre ribaltarsi in vendetta e rovesciarsi, come cavalieri dell’apocalisse, sull’umanità più inerme e indifesa, se non su e contro se stessi, auto-identificati come latori stessi della negazione della speranza. Una disperazione passibile di diventare epica e tenebrosa sfondando nell’allucinazione. Perciò l’arte tedesca è così visionaria. Perciò la morale tedesca è così severa e rigorosa. Perché vi incombe sopra un “angelo delle tenebre”, una divinità intelligente che vorrebbe il bene- ma non riesce, e allora si “abbandona all’ebbrezza infernale” (Thomas Mann, Doktor Faustus).
Entriamo nella casa di Wagner: siamo accolti dagli echi del Walhalla, ossia dagli accordi dell’Ouverture del Tannhäuser. Quando quei fiati risuonano, stemperando cascate di violini dalle loro monumentali sommità, ecco che scorgete una cavalcata di eroi sbrigliarvisi davanti. Sono gli eroi della potenza crucca. Una sguinzagliata di geni severi sotto le cui occhiate cupe e grandiose si spiaccicheranno i vostri timidi sguardi di turisti terrorizzati. Perché c’è un perché che si sporge da quegli sguardi come dalla Nordwand dell’Eiger, la più spericolata parete alpina: è lo sguardo della missione germanica sulla faccia del mondo. La stessa missione di Rosenkreuz di quasi mille anni fa; la missione sacro-romano-imperiale di salvare la Gerusalemme Celeste. Vale a dire: laddove i Romani hanno fallito, salvare la civiltà occidentale dalla barbarie incombente da est. E chi altri si insignirà di una tale missione se non i Tedeschi, gli ultimi dei Romani, gli ex-barbari? Riscattando così la propria barbarie?. Eccolo quel perché. Ecco il senso del severo cipiglio missionario dell’uomo tedesco, del Wanderer, del viandante della foresta, come dice Canetti. Ecco qui il compito che egli si è assegnato nel mondo: la grave ambascia della salvazione universale, il Graal della redenzione dell’umanità. Ecco il domino del viandante nella foresta, ossia dell’uomo tedesco: l’anelito alla redenzione. E se non riesce… tutti giù per terra. E con l’aggravante che la missione storica dei tedeschi è incrinata sin dalla sua formulazione dal complesso storico dei tedeschi, quello di aver dovuto sempre inseguire i romani, prima, e poi gli italiani, di arrivare sempre secondi (come nel football). Un complesso che da oltre due secoli non ha più senso, ma che fin lì aveva sempre soffiato nelle orecchie dei nordici la maledizione di restare indietro, lasciando lunghi strascichi dietro di sé. Una piccola “rata” del “problema tedesco”, se vogliamo, ma che fa tutt’uno col senso razionale della missione- perché un missionario è anzitutto uno a cui manca qualcosa.
Ora però, quelle trombe di poc’anzi, quelle wagneriane, ci tallonano, ci marcano stretto, e noi cominciamo a captare nel fascino oscuro che ci sfiatano addosso quella “anomalia” di cui parlavamo in apertura. Sì, in quell’eroico clamore di trombe solenni e di violini sciabordanti sentiamo risuonare quella “cosa strana” del nazionalsocialismo che ancor oggi, ancor dopo tanti anni dalla sua apocalittica apoteosi, seduce e ammalia le menti più deboli, le persone più impreparate, innocenti, nullatenenti; le miriadi di Kleinermann accatastate come campionari di indigenza dentro megalopoli turpi, guaste e malfamate. Drizziamo bene le orecchie: che cos’è ‘sta “cosa strana”? Ci insinuiamo dentro le viscere della casa di Wagner e ci monta un sospetto che lì, nel buio, comincia a diradare le ombre: si tratta del non sapere di qualcosa. È ignoranza, è penuria culturale. Tutta la perfetta macchina tragica wagneriana nasconde e omette la conoscenza della tragedia, portandone in scena soltanto la coreografia. Si rifiuta di affrontare la sfida della tragedia, è troppo vigliacco, quindi fugge, si eclissa, s’accuccia nel nascondiglio del mito onde evitare l’incontro leale con la realtà.
Ma la fuga dalla realtà genera mostri puerili, e quando il pensiero “selvaggio” ricusa il suo atterraggio nella maturità, si auto-respinge in un mondo mitico, fatto sì di eroi e fanciulle leggendari, ma incompleto, carente, in una parola falso, il cui sigillo imperiale è quello del sadomasochismo. Così il tragico si volge in retorica e, sia pur questa esteticamente riuscita e convincente (anzi, tanto più quanto più lo è), la sua macchina diventa quella della propaganda- per un massacro...
È questa la cosa strana insinuata nella musica di Wagner, questa facilità, questa esemplificazione puerile dei temi che, invece di essere affrontati, vengono ricoperti di estasi scantonanti, narcotizzanti, adulteranti. Così, il problema tedesco, non è più un problema: è una virtù, una predisposizione all’apoteosi, appunto, che già alla radice è immediatamente epica, senza preoccuparsi troppo dei dettagli storici, psicologici ed epistemologici. Ecco un modo rozzo di fare cultura alta e tuttavia atroce: è questa la cosa strana.
Così Wagner inciampa in Spengler e questi in Tolkien e questi in Orff e quest’ultimo inciampa nel nazismo, fornendogli l’adeguato apparato sonoro- e il sarcasmo feroce, la parodia assassina di se stessi, che il Terzo Reich mette in scena con lo scherzo atroce, ma vero, della Endlösung, della soluzione finale, il gesto puerile dell’ecatombe di sei milioni di innocenti per futili motivi, come si dice in termini giuridici quando si vuole sottolineare la particolare abiezione di un colpevole.
Su “Schindlerslist”, il film sui Lager, quando Höss, comandante in capo del Lager, sparacchia a caso contro gli internati ebrei, uccidendoli per provare la mira, la ragazza ebrea costretta a dividere il letto con lui gli dice di smetterla di fare “Il bambino stronzo”. Ecco l’espressione è perfetta. E si adatta perfettamente anche a Richard Wagner, perché anche lui, di cui apprezzo grandemente il genio, era un bambino stronzo…
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