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Pietas

 C'era un tempo in cui non avevamo morti nostri da visitare tra i viali del Verano e mia nonna, mia madre ed io vagavamo sull'acciottolato in cerca di tombe dimenticate su cui lasciare fiori. Era una cosa di donne, il due novembre.
Sciamavano dal cancello disperdendosi fra i sepolcri cariche di crisantemi. Molte vestite di nero, per qualche eterno lutto. La maggior parte di loro non era di Roma, veniva da fuori, ma non poteva permettersi di tornare al paese a trovare i propri cari defunti per cui andava lì, in quello che allora era l'unico cimitero della capitale, e li ricordava attraverso quelli degli altri. E più negletti erano, meglio era. Si ripuliva la tomba dei prescelti estirpando erbacce e vecchi arbusti rinsecchiti, lavando la lapide perché il nome tornasse a leggersi, perché quel morto sconosciuto non precipitasse nell'oblio, trascinando così con sé tutti i morti di ogni tempo ed ogni luogo.
 
La pietas si insegnava così, senza versi alati o ricorrendo a sacri testi, ma attraverso gesti semplici e densi di significato come questi.
 
Solo dopo aver adempiuto questo dovere si visitava la parte monumentale del Cimitero. Lì erano sepolti i morti famosi, da Trilussa a Togliatti, da Petrolini a Ungaretti. Ma io delle loro tombe non ricordo niente. Ricordo invece l'impressione che mi fece un monumento funebre che ritraeva due bambini che cercavano di svegliare la loro madre, passata a quella che di definisce miglior vita durante la notte. Per giorni e giorni, continuai a svegliarmi alle ore piccole, ed andavo a scuotere mia madre che dormiva, per controllare che fosse viva. Lei, che pure in quel periodo lavorava tantissimo, uscendo la mattina alle 7 e rientrando a volte dopo le 22:00 - faceva la segretaria stenodattilografa in una società privata, dove le famose otto ore erano ancora pura astrazione - non mi diceva niente, ma mi faceva accoccolare tra le sue braccia, dove sentivo il suo corpo caldo e il suo cuore che batteva, e mi riaddormentavo.
 

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