Scritto da © pedronessuno - Mar, 30/10/2012 - 14:30
PROLOGO
Il fango aveva un sapore indecifrabile.
Il ragazzo se ne tolse alcuni pezzetti dalle labbra mentre si alzava dalla terra umida. La notte gli era crollata addosso come una diga, non si era reso conto del passare delle ore. Con una lentezza che non gli apparteneva si levò la giacca, la camicia e i pantaloni. Infine si tolse anche gli stivali e avvolse il tutto in un unico involto. Il vento fresco della primavera gli soffiava sulla pelle nuda e sudata, metallica sotto il riflesso della luna. Il profumo dei fiori d’acacia iniziava ad addolcire le tenebre d’aprile. Il ragazzo non vi prestò attenzione, concentrato a non perdere quel poco di lucidità faticosamente riconquistata. Si mosse silenzioso tra gli alberi, con i piedi che affondavano nell’erba tenera appena nata. Vide l’ombra imponente di un ippocastano stagliarsi come un monte di fronte a lui. Lo raggiunse con passi veloci, cercò nel terreno un incavo scavato dalle radici dell’albero e vi nascose con cura il fagotto di indumenti e calzture. Poi ricoprì tutto con terra e foglie e quando fu soddisfatto del proprio lavoro tornò alla radura dove si trovavano gli altri.
Li osservò: erano ancora distesi a terra, come lui pochi minuti prima, immobili e con la faccia nel fango.
Però loro non si sarebbero più alzati.
Loro erano tutti morti.
Non gli era ancora chiaro come avesse fatto a sopravvivere a quella raffica inattesa di piombo.
Forse l’uomo che stava davanti a lui, crollando a terra colpito dai proiettili, l’aveva trascinato con sé, macchiandolo con il suo sangue sul volto e sull’addome, riparandolo dalle successive pallottole. Sotto il peso di quel corpo senza vita non si era più mosso, non per una sua precisa volontà, ma perché gli arti avevano smesso di rispondere ai comandi del cervello, sgomenti per quanto accaduto.
A lungo credette d’essere morto a sua volta.
E lo stesso dovette pensare anche chi aveva aperto il fuoco su di loro, perché nessuno tornò a controllare le sue condizioni.
Poi si era in qualche modo risvegliato, si era guardato intorno e aveva messo a fuoco la sua situazione.
Facendo ricorso al suo addestramento si era concentrato su ciò era necessario fare, per uscire da quella storia nel modo migliore.
Aveva considerato tutte le alternative ed infine era giunto all’unica possibile soluzione.
Doveva morire anche lui.
Far credere a tutti d’aver fatto la stessa fine degli altri.
E poi fuggire, sparire, eliminare ogni traccia di sé.
I suoi indumenti prima di tutto: riteneva che il luogo in cui li aveva abbandonati fosse abbastanza sicuro.
Poi si sarebbe ricostruito una nuova vita dimenticando tutto ciò che era accaduto in quelle ore.
Restava solo da chiarire dove avrebbe potuto nascondersi per non essere riconosciuto, per non destare sospetti uscendo dal bosco nudo, vestito solo della sua pelle.
Ma anche quel dettaglio gli fu immediatamente chiaro: c’era un solo luogo in cui nessuno l’avrebbe mai cercato.
I ribelli stavano sulle colline lì attorno, nascosti nei loro rifugi di fortuna. Li avrebbe cercati e raggiunti, avrebbe detto d’esser stato vittima di un furto, avrebbe dato false generalità e si sarebbe arruolato con loro, con le stesse persone a cui aveva dato la caccia fino a quel momento. Soltanto lì sarebbe stato al sicuro finché le acque non si fossero calmate.
Il ragazzo lanciò un ultimo sguardo ai suoi compagni, riversi nel loro stesso sangue, squarciati dai colpi di mitraglia. Avrebbe voluto vendicarli, avrebbe voluto seppellirli, avrebbe voluto fare una cosa qualunque. E invece non gli restò altro che ricacciare indietro le lacrime che stavano per colargli sulle guance e correre verso le colline, senza più voltarsi indietro.
Il bosco lo inghiottì come un corvo nelle tenebre.
Bombe esplodevano su villaggi lontani, di fuoco il cielo ruggiva furioso.
PRIMO GIORNO - Lunedì
1)
Squadrando il cadavere che giaceva sul terreno, Loide si alitò sulle mani per riscaldarle. Dalla sua bocca uscì una lattiginosa nuvola di vapore. La mattina era fredda, serena, affilata. Le lucide cime dei monti brillavano innevate. Quella appena iniziata aveva tutta l’aria di essere una delle migliori giornate offerte dall’inverno torinese.
“Ecco qui, Andrea, è la terza volta che mi capita.”
Il commissario Andrea Castelli guardò a sua volta il corpo immobile disteso sulla terra battuta. Una piccola pozza di sangue si era rappresa intorno al cranio fracassato e del pane secco era sparso tutto intorno.
I resti di un ultimo pasto non consumato.
“La terza volta?”
Il suo vicino di casa allargò le braccia, sconsolato, facendo ricadere pesantemente i palmi sui fianchi.
“Che ti devo dire? Non ci capisco più niente.”
Castelli si grattò con forza la schiena, all’altezza della base del collo. L’etichetta della camicia continuava a tormentarlo da quando se l’era infilata. Era la maledizione delle camicie nuove, avrebbe dovuto tagliarla al più presto.
“Hai una forbice?”
Loide toccò le tasche laterali e posteriori dei suoi pantaloni da lavoro.
“Ho solo una cesoia.”
“Può andare lo stesso. Mi aiuti?”
Il commissario aprì il giaccone, si sfilò la giacca di velluto e sbottonò i primi bottoni della camicia. Una bella francese a righe azzurre, poco invernale, per la verità. Piegò il colletto indietro per far sporgere l’etichetta e attese che il vicino lo potasse come un olmo.
Il vecchio eseguì con mano esperta.
“Grazie, Loide. Comunque non ho mai visto niente di simile.” Il commissario indicò con il mento il corpo senza vita che aveva di fronte, mentre si risistemava i vestiti.
Loide ricacciò le cesoie nella tasca e scrollò un’altra volta le spalle.
“Due mesi fa mi hanno ammazzato la prima; dopo un paio di settimane ho trovato morta la seconda, e adesso questa. Non so che pensare, mi sto preoccupando.”
“E ci credo. Le hai trovate sempre in questo stato?”
“Sissignore, con la testa schiacciata e il resto del corpo intatto.”
“E il recinto chiuso col lucchetto.”
“Appunto. Non so come abbiano fatto a entrare. A scavalcarlo avrebbero tirato giù la rete. Invece è tutto a posto.”
“Mah.” Castelli tirò fuori il cellulare. “Ti spiace se faccio qualche foto?”
“Non mi fido di quegli aggeggi tecnologici, ma fai pure.”
Il commissario scattò un paio di fotografie al corpicino devastato, da diverse angolazioni. Mentre si muoveva considerò con soddisfazione che il prurito da etichetta era completamente svanito, una volta rimossa la causa dello stesso.
“Che poi se fosse entrato qualcuno nel pollaio, le altre galline si sarebbero svegliate e avrebbero fatto un gran baccano. Le avrei sentite.” chiosò Loide.
Castelli valutò un’altra volta la stia e il pennuto morto che vi giaceva al centro.
Era d’accordo con il suo vecchio vicino: chi gli stava facendo fuori tutte le galline, una dopo l’altra, agiva senza fare il minimo rumore.
“In effetti ho passato la notte in bianco e non ho sentito niente neppure io.”
Castelli ripensò alla notte appena trascorsa, all’improvvisa e immotivata crisi d’apnea che l’aveva svegliato intorno all’una, all’attacco di panico che l’aveva assalito quando era andato a cercarne le cause su internet, al terrore ipocondriaco che l’aveva divorato fino alle prime luci dell’alba. In tutto questo se le galline avessero schiamazzato se ne sarebbe accorto. Invece silenzio assoluto, a parte il ticchettio del suo cervello e i soliti rumori della notte.
“Hai litigato con qualcuno, ultimamente?”
Loide ci pensò su qualche istante, viso imbronciato, il palmo a sorreggere il mento. Aveva la pelle delle mani completamente screpolata, quasi spaccata dal gelo, dal sole, dal vento, dalla pioggia. Dal lavoro, insomma. Sembravano carsiche formazioni di roccia esposte per lungo tempo al lavorio delle stagioni.
“No, direi di no. Non particolarmente.”
Sarebbe stato strano il contrario, pensò il commissario: conosceva Loide da quando si era trasferito in quel palazzo qualche anno prima e si poteva dire tutto di lui tranne che fosse un piantagrane, anzi. Era una persona tranquilla e amabile, un docile vecchietto di quasi ottant’anni, che raramente usciva di casa.
Le sue uniche stranezze stavano nel nome, biblico e femminile, a dispetto di lui che si professava comunista e virile, e nel pollaio con piccolo orto annesso che si era creato nel cortile del palazzo, proprio sotto la fila di balconi su cui si affacciava anche l’appartamento di Castelli.
Quando il commissario era andato ad abitare nello stabile si era stupito nel vedere alcune galline che scorrazzavano felici sotto al suo balcone, così aveva chiesto chiarimenti all’amministratore. Si era sentito rispondere che Loide, l’inquilino del piano terra, aveva convinto, tempo prima, gli altri residenti ad accettare gli inconvenienti che può comportare la presenza di animali da cortile in un edificio cittadino in cambio di uova e verdure fresche tutti i giorni. Col passare del tempo la scelta aveva soddisfatto tutti gli affittuari. Quindi, in conclusione, se voleva vivere lì doveva adeguarsi alla situazione o cercarsi un altro appartamento.
Castelli non aveva avuto problemi firmare il contratto d’affitto.
“Magari è lo scherzo di qualche ragazzino.” Tentò il commissario, né convinto né convincente.
“A me sembra che qualcuno ce l’abbia con me, invece.”
Castelli sospirò e annuì insieme, confermando la supposizione del vicino “E hai idea di chi potrebbe essere?”
“Allora lo credi anche tu, che qualcuno mi abbia preso di mira?”
“Più che te, direi le tue galline. Quindi? Ti viene in mente qualche nome?”
Loide scosse la testa, si accese una sigaretta e inspirò una lunga boccata di fumo. La risputò quasi completamente dal naso, come un drago dei boschi.
“Ma no, proprio per niente, non saprei che dirti. Mi ricorda la storia del Berlic.”
“Il Berlic?”
“Uno spiritello delle valli qui intorno, che nelle notti di bufera si infilava nelle stalle per rubare le mucche e le capre e che se veniva scoperto si tramutava in una luna splendente appesa al soffitto. Una storia che raccontavano i malgari quando scendevano in città.”
Nel frattempo l’odore del tabacco bruciato era arrivato fino alle narici del commissario e la voglia di fumare si accese anche in lui. Con uno sforzo di volontà cercò di vincere il desiderio: dopo la notte appena trascorsa tra apnee e attacchi di panico si era ripromesso di piantarla con le sigarette e di iniziare una vita più salubre. Si complimentò con se stesso per la determinazione quando la momentanea smania fu superata.
“Nel tuo caso invece il folletto ti ammazza le galline.” Aggiunse infine.
“Sembrerebbe.”
“I folletti vanno presi sul serio.”
“La maggior parte sì. Certe cose le dovrebbero insegnare anche a scuola.”
“Vedremo cosa si può fare per cambiare i programmi ministeriali, però intanto tu prova anche a pensare se ti è successo qualcosa di strano negli ultimi tempi, se hai visto qualcosa di inconsueto, a cui magari sul momento non hai dato peso. E se ti viene in mente qualcuno che possa avere un motivo per farti questo.”
“Farò come dici.” rispose il vicino più per assecondare il commissario che per una reale convinzione che il suggerimento fosse utile.
“Non c’è fretta, riflettici con calma. Nel frattempo cercherò di farmi un’idea più precisa anche io.”
“Va bene. Ti posso offrire un caffè per il disturbo?”
“Un’altra volta Loide, questa mattina sono di fretta.”
“Ti ho fatto perdere tempo?”
“Non ti preoccupare, vorrà dire che al prossimo giro avrò razione doppia di uova.”
“Sempre che il Berlic non mi ammazzi le galline prima.”
“Appunto.”
Castelli salutò il vicino e si diresse verso l’auto, pensieroso. Da un lato la faccenda delle galline l’aveva colpito, dall’altro continuava a domandarsi perché mai un uomo dovesse chiamarsi col nome di una donna. Una volta aveva affrontato la questione con Loide, ma lui non aveva risposto, dicendo che era una storia di cui preferiva non parlare. Castelli aveva accettato la spiegazione ma gli era rimasta intatta la curiosità.
Ma queste erano tutte questioni che potevano rimanere in sospeso, per il momento, perché quella mattina c’erano cose ben più serie di cui occuparsi.
2)
Nel lasciargli un messaggio nella segreteria del cellulare, l’ispettore Giordano era stato piuttosto conciso ed esplicito. A quanto pareva quella notte non era stata ammazzata solo la gallina di Loide: anche qualcun altro aveva fatto una brutta fine. A essere molto vaga era invece la descrizione di come ciò fosse avvenuto. In ogni caso lo invitava a raggiungerlo al più presto, all’indirizzo comunicato, e gli ricordava anche di passare a ritirare la spesa al negozio di alimentari vicino alla centrale, se non voleva restare senza cena. Strano accostamento di informazioni ma l’ispettore ci teneva a fargli sapere che aveva provveduto a ordinare il suo solito ‘pacco single’ ma che non gliel’avrebbe di certo anche portato a casa.
Mentre sfilava veloce nel traffico mattutino, la sirena accesa, Castelli pensò che se la sua vita non si era ancora persa tra le pieghe di un divano lo doveva in gran parte proprio a Luca Giordano, ispettore, amico, colf a mezzo servizio. Non aveva mai compreso fino in fondo la vera natura del loro rapporto, ma gli era chiaro di non poterne fare a meno, nonostante la dubbia ambivalenza del loro legame. Lui che non era mai stato in grado di coltivare vere e proprie amicizie e aveva permesso alla pigrizia di allontanare ogni conoscente che necessitasse anche soltanto un minimo di impegno da parte sua, era invece riuscito senza fatica a mantenere vivo il legame con l’ispettore. Certo tutto era più semplice, visto che il lavoro li avvicinava quotidianamente, però non c’era solo questo. Con il tempo si era creato un curioso gioco delle parti, ambivalente e inaspettato. Infatti, anche se Castelli era il suo superiore, responsabile delle sue azioni e garante ultimo del suo lavoro, era l’ispettore a essere l’anima saggia della coppia, un’avveduta chioccia che provvedeva a tenere il commissario sulla retta via dell’ortodossia sociale, senza permettergli di divagare troppo dietro a certe malinconie che saltuariamente lo affliggevano o a certe passioni che spesso degeneravano in manie. D’altro canto Castelli portava una ventata di inquietudine nella vita dell’ispettore, che trovava eccitante lasciarsi trasportare, talvolta, dai pensieri torrenziali del suo superiore in grado, dimenticando per un momento la propria consuetudine famigliare costituita da una moglie devota, pannolini sporchi e primi dentini portatori di urla apocalittiche nelle ore notturne.
Da questo equilibrio inusuale entrambi sembravano trarre reciproco beneficio e, naturalmente, di questo equilibrio inconsueto non avevano mai parlato, né l’avrebbero fatto mai. Erano o no piemontesi? Pragmatici come alpini, duri come le Cozie, freddi come la Dora. Niente margine per i sentimenti, spazio soltanto al lavoro. Generazioni di giovani subalpini erano stati cresciuti secondo questo rigido schema interiore che aveva prodotto una terra fertile, ordinata e ricca. E una lunga schiera di pazienti per increduli psicologi, pagati per ascoltare e consigliare, mestiere normalmente riservato ad amici e parenti. Ma non in Piemonte.
Proprio per questa sua genetica predisposizione al dovere, quando giunse a destinazione e l’aria fredda lo investì una volta sceso dall’auto, Castelli mise da parte ogni altra considerazione e tornò a concentrarsi sull’impegno che lo attendeva.
Diede un veloce sguardo intorno a sé. Ruspe, mattoni, fango e carriole. Tra putrelle di acciaio e componenti in calcestruzzo gli agenti si muovevano solerti e laboriosi lungo tutta l’area del cantiere in cui era appena entrato. Sembravano crumiri intenti a rubare il lavoro agli scioperanti operai, costretti dalle contingenze a sospendere ogni attività lavorativa. Solo un piccolo gruppo di persone si agitava intorno a una betoniera, più lontana rispetto al luogo delle operazioni della Polizia, accanto a un’altra schiera di individui, impegnati a districare i fili elettrici delle lampade alogene. A lui interessavano ovviamente i secondi, vestiti di bianco e con guanti di lattice infilati nelle mani, piuttosto che i primi avvolti in sciarpe, pile e jeans da lavoro.
Raggiunse quindi gli agenti della Scientifica intenti a riordinare le attrezzature in dotazione. Avevano da poco ultimato i rilevamenti video-fotografici della zona e si apprestavano a liberare il campo. Il terreno morbido e argilloso aumentava drasticamente il rischio di alterare le condizioni dell’aera interessata, quindi l’attività di ripresa era stata ritenuta di prioritaria importanza rispetto ad ogni altro intervento.
E Castelli se l’era persa per star dietro alle galline.
Scambiò qualche parola veloce con il responsabile delle operazioni che lo aggiornò sull’operato dell’unità mobile e gli assicurò che i risultati dei rilievi sarebbero arrivati sulla sua scrivania non appena fossero stati pronti. Castelli annuì e lasciò che la squadra completasse il proprio lavoro. Scorse poi in lontananza il medico legale, chino su una forma umana distesa a terra, concentrato ad effettuare i primi rilievi su quello che era, senza dubbio, il cadavere di una donna.
Giordano invece si trovava poco distante, in piedi accanto a un grande capannone in muratura, intento a parlare con alcune persone. A parte un individuo in giacca, cravatta e cappotto, tutti gli altri erano operai.
Decise che di aver già visto cadaveri a sufficienza, per quella mattina, così si incamminò verso l’ispettore, rimandando a più tardi l’ispezione della salma.
Mentre si stava avvicinando Giordano lo notò, gli fece un cenno di saluto e lo raggiunse a sua volta, incrociandolo a metà strada. L’ispettore era alto quasi quanto lui, di corporatura agile e dall’incarnato pallido. Il volto sommerso da una marea di ricci rossi e da una barba altrettanto infuocata lo rendeva simile a una divinità norrena, placida e terribile.
“Buongiorno Giordano.”
“Commissario. Ha ricevuto il mio messaggio?”
“Sì, ti ringrazio. Ora invece che cosa mi racconti?”
“Ho appena finito di raccogliere le testimonianze degli operai e del proprietario del cantiere.” Con un gesto rapido indicò il tizio vestito elegantemente. “È stato lui a trovare il corpo, questa mattina verso le sei. Vuole parlarci?”
“Sì, ma prima dimmi del cadavere. Cosa sappiamo?”
“Per ora poco, stiamo aspettando un primo rapporto del medico legale. Comunque è una donna sui trent’anni, bionda, di media statura. È stata rinvenuta completamente nuda, quindi niente documenti.”
“Si sa già come è morta?”
Giordano infilò le mani in tasca e fece spallucce, simile a uno scolaro che non avesse giustificazione per non aver svolto i compiti.
“Questo è il problema. C’è l’imbarazzo della scelta.”
“Cioè?” Castelli fu sorpreso tanto dalla risposta del suo ispettore quanto da una folata di vento gelido che gli fece alzare la zip del giaccone fino al mento.
“Forse è meglio se controlla di persona.”
Il commissario guardò di nuovo verso il cadavere: il medico legale era ancora alle prese con le operazioni di macroanalisi sul corpo. Al momento a lui non era tornata la voglia di assolvere a quell’incombenza, così decise di rimandare di un altro po’.
“Più tardi. Ora vorrei andare a parlare con il proprietario del cantiere. Che tipo è?”
“Si chiama Giacomo Valenti. Piuttosto gentile e disponibile, direi. Più che altro ha premura che gli sgombriamo il campo per poter riprendere i lavori.”
“Allora andiamoci a fare due chiacchiere e vediamo di farci offrire un caffè, vista la disponibilità. Io non ho ancora fatto colazione, questa mattina. Tu?”
“Sì, ma un altro po’ di caffeina non mi farà male.”
Il proprietario non tradì la descrizione fatta da Giordano. Li accolse educatamente nel suo ufficio e ordinò a una segretaria di portare caffè e croissant per tutti e tre. L’assistente uscì rapidamente dalla stanza per assolvere all’incarico, lasciandosi dietro una scia di profumo dolciastro e il fruscio del suo tailleur nero. Castelli gradì l’iniziativa dell’imprenditore nonché le gambe della sua collaboratrice e decise che avrebbe fatto il possibile per fargli riprendere celermente l’attività del cantiere. In fondo non era colpa sua se si era trovato un morto tra il calcestruzzo e le scavatrici.
Il locale in cui trovavano era piuttosto anonimo, come lo possono essere soltanto gli uffici temporanei destinati alla dismissione una volta esaurito il loro compito. Nessun quadro alle pareti, nessuna fotografia sul tavolo. Tutto era ridotto all’essenziale, al necessario e dominava il bianco tra gli altri colori. Castelli si sistemò su una delle due sedie girevoli di fronte alla scrivania del Valenti, si aprì il giaccone, si sbottonò la giacca e, quando ritenne di essere sufficientemente comodo, si rivolse al proprietario del cantiere.
Giordano prese posto accanto al commissario.
“Da quanti anni è imprenditore, signor Valenti?”
“Quasi venti. Ho iniziato intorno ai trenta, dopo la laurea.”
“Che università ha frequentato?”
“Giurisprudenza.”
“E perché si è poi dedicato all’attività edile?”
“La mia famiglia aveva qualche risparmio da parte e una piccola partecipazione in un’impresa di costruzioni. Così, per fare qualche soldo durante il praticantato, ho iniziato a dare una mano nella gestione legale del cantiere. Il lavoro mi è subito piaciuto e le cose sono andate meglio del previsto. Sono subentrato ai miei genitori nella partecipazione ed ora eccomi qui. Ora ho una mia impresa privata e non mi pento della scelta fatta.”
Castelli lo guardò meglio. Aveva un volto semplice, fatto di poche linee. La fronte alta, gli zigomi quasi inesistenti. Un viso rassicurante. Parlava chiaro e con tono neutro. Non c’era nulla in lui che esprimesse un qualche tipo di minaccia. Il commissario lo prese subito in simpatia.
“Lei mi ricorda qualcuno, sa? Forse un attore o qualcosa di simile.”
“Me lo dicono in molti.”
In effetti l’imprenditore era la copia precisa del protagonista di una fiction che andava molto di moda in quel periodo. Giordano glielo fece notare. Castelli non sembrava convinto ma lui guardava di rado quei programmi. Scrollò le spalle.
“Probabilmente è come dici tu.” Poi tornò a rivolgersi a Valenti “L’ispettore Giordano mi ha detto che è stato lei a trovare il cadavere.”
“Infatti. Non è stata un’esperienza piacevole.” Una smorfia si dipinse sul volto curvilineo dell’imprenditore.
“Non fatico a crederle. Mi ripete come è andata?” Castelli svuotò in un sorso il bicchierino di plastica colmo di caffè e poi si avventò sul croissant mentre Valenti iniziava a parlare.
“C’è poco da dire. Questa mattina sono arrivato prima degli altri giorni perché avevo alcune faccende in sospeso da sistemare. Gli operai di solito attaccano intorno alle sette e mezza, io ero qui già verso le sette. Per questo quando ho trovato i cancelli del cantiere aperti mi sono stupito che ci fosse già qualcuno al lavoro. Sono entrato con l’auto per raggiungere il mio ufficio che, come vedete, è piuttosto distante dall’ingresso. Ho fatto solo pochi metri poi qualcosa di strano in mezzo al piazzale centrale ha attirato la mia attenzione. Sono sceso per controllare e cosa ho trovato già lo sapete.”
“Quindi è sua l’auto che ho visto accanto al cadavere.”
“Esattamente. Dopo esser sceso non l’ho più spostata.”
“Capisco. Ha detto di aver trovato i cancelli aperti.”
“Sì, hanno divelto i lucchetti. Piede di porco o qualcosa di simile.” commentò Giordano.
“Ed entrando lei non ha notato questo particolare?”
“Come le ho detto ero meravigliato che ci fosse già qualcuno al cantiere. Ma per il resto non ci ho fatto caso, non mi sono messo a guardare i cancelli. Semplicemente sono entrato.”
“E quando ha trovato il corpo cosa ha fatto?”
“Vi ho chiamati.”
“Ha toccato il cadavere?”
Valenti cercò lo sguardo di Giordano. “Il commissario non ha ancora visto il corpo.” Spiegò l’ispettore.
Castelli li guardò entrambi, sorpreso dalla reazione. L’imprenditore proseguì.
“Capisco. No, certo che non l’ho toccato. Però mi sono avvicinato. Quindi credo che troverete alcune mie impronte lì intorno.”
“Sì, questo sarà un altro problema, purtroppo.” continuò Giordano.
Castelli questa volta intuì. “Ci sono anche le impronte degli operai, immagino.”
“Infatti. E delle carriole, delle ruspe, dei carrelli. È un cantiere, dopotutto. La Scientifica ha filmato ogni dettaglio e ha fatto molta attenzione a non inquinare la zona del ritrovamento ma credo che i rilievi non ci saranno di grande utilità.”
“Capisco. Grazie per il caffè, signor Valenti, e per la sua collaborazione. Giordano, credo sia ora di vedere il corpo.” Castelli si alzò e tese la mano all’imprenditore.
“Commissario.” Valenti lo fermò.
“Dica.”
“Senta, immagino che le vostre procedure siano rigide, ma devo chiederle una cortesia. Qui è già metà mattinata che tutto è bloccato. Il cantiere è grande e gli operai che ci lavorano sono tanti, abbiamo dei tempi da rispettare.”
“Ho capito, Valenti. Facciamo così. Voi proseguite i lavori nei settori del cantiere non interessati dai rilievi e mi date massima collaborazione su ogni cosa, interrogatori agli operai compresi. Tutti gli operai, non so se mi spiego.”
“Si spiega benissimo e le dico che per me va bene. Ma, solo per chiarire, qui non lavorano irregolari. Sono tutti a posto con i documenti.”
“Meglio. Arrivederci allora.”
Quando uscirono dall’ufficio un folata di vento gelido li fece stringere nelle spalle. Castelli, che aveva lasciato il giaccone aperto, si affrettò a chiuderlo mentre Giordano si sfilava dalla tasca del cappotto un pacchetto di sigarette. Castelli lo guardò senza dire nulla. L’ispettore tirò fuori due sigarette e gliene offrì una. Era una loro consuetudine che andava avanti da tempo: quando erano insieme, Castelli si sentiva in dovere di fumare a scrocco e Giordano, che ci era abituato, prendeva quel sopruso come una specie di rito tra loro, una sorta di stretta di mano in codice. Quella volta però il commissario tentò un timido rifiuto.
“Dovrei smettere, sai? È da qualche tempo che mi prendono crisi d’apnea. Mi sveglio nel cuore della notte e non riesco più a respirare. Non mi entra un filo d’aria nei polmoni, dovrei fare un controllo. Ho letto cose per niente belle sulle crisi d’apnea: sono sintomi da non sottovalutare. Magari più tardi faccio un salto in pronto soccorso per una lastra.”
Anche all’ipocondria di Castelli Giordano aveva fatto il callo. Un mese sì e uno no il commissario credeva di soffrire delle peggiori malattie possibili. Si lamentava per qualche giorno, prenotava un fiume di esami clinici senza poi eseguirli e infine se ne dimenticava.
“Se vuole c’è già il medico legale, qui, così fa prima.” L’ispettore sorrise mentre accendeva contemporaneamente le due sigarette e ne porgeva una al commissario.
Per qualche istante Castelli titubò sul da farsi, ma alla fine la sua determinazione crollò. Prese il cilindro di tabacco fumante dalle dita del collega, se lo portò alla bocca e tirò una boccata veloce.
“Vai a cagare, Giordano. Piuttosto, mi spieghi perché hai fatto quella faccia quando ho chiesto al Valenti se aveva toccato il cadavere?”
Giordano rispose con un’espressione insondabile.
“Forse è meglio se guarda di persona.”
Castelli annuì. “E va bene, smettiamola di rimandare e andiamo a vedere il corpo.”
La donna era distesa supina. Il volto per metà coperto dai lunghi capelli dorati e per l’altra metà invece completamente ustionato, i capelli strinati dal calore che le aveva liquefatto la pelle. Anche il busto e le cosce erano ricoperti da ampie bruciature. Le gambe disegnavano angoli innaturali allo stesso modo delle braccia: sembravano spezzate in più punti e, dove la pelle si era lacerata, bianchi moncherini di ossa splendevano sotto il sole invernale. Tutte le unghie della mano destra erano state strappate. Il vento scivolava su quel corpo immobile, abbandonato come un triciclo rotto. Nei cieli sereni le nuvole erano piume di colomba.
Il medico legale, ancora chino sul cadavere, si alzò lentamente quando vide l’ombra di Castelli allungarsi davanti a lui. C’era un’espressione esausta sul suo volto. Il commissario, dal canto suo, nonostante avesse a che fare con la morte quasi quotidianamente, rimase stordito di fronte al dolore che quel corpo emanava.
Per qualche istante ammutolì, al cospetto dello scempio.
Fu Giordano a scuoterlo, toccandogli una spalla.
“Ora capisce cosa intendevo.”
“L’hanno massacrata.”
Nel frattempo, Giulio Canova, il medico legale, si era portato accanto ai due poliziotti.
“Questa poveretta ha sofferto le pene dell’inferno.” sentenziò il dottore “E purtroppo questa volta non è solo un modo di dire.”
Castelli continuava a fissare il cadavere, come per sincerarsi che quello che guardava fosse davvero reale. Poi si voltò verso il medico legale cercando di concentrarsi sul lavoro.
“Dottore. Ha già qualcosa di utile da dirci?”
Canova si levò i guanti di lattice e li gettò in un bidoncino accanto a loro. Poi si passò le mani nei capelli e si fregò più volte la faccia, come se si fosse appena svegliato.
“Oltre ai segni che già potete vedere da soli, anche sulla schiena presenta tracce di traumi importanti. Gli ematomi sono talmente vasti da coprire larga parte del corpo: è come se avesse tutte le ossa rotte, con i conseguenti versamenti di liquido. Sembra che le sia passato sopra uno schiacciasassi. Poi ci sono le ustioni.” Canova prese fiato, inspirando a lungo, come a cercar ristoro e pausa dalle sue stesse parole. “Sono molto uniformi, direi quasi provocate simultaneamente. Non ho idea di come si possa ottenere un effetto simile. Forse con una grande lastra incandescente. Infine il corpo presenta anche diverse altre sevizie, basta osservarle le dita della mano destra per farsene un’idea. Per eventuali abusi sessuali non possa ancora dirle nulla. Però sulla causa della morte non ho dubbi. È stata provocata da una ferita d’arma da fuoco.”
Castelli era sconvolto e stupito insieme. “Come un ferita d’arma da fuoco?”
“Sarò più preciso dopo l’autopsia, ma posso quasi certamente confermare che sia morta per un colpo di pistola alla testa.”
“Vuol dire che nonostante le torture subite è rimasta in vita abbastanza a lungo da essere poi uccisa in quel modo?”
Canova allargò le braccia, come a dire che sembrava incredibile anche a lui.
“Non so che dirle. Accanto al foro di uscita, poco sopra la tempia, ci sono tracce copiose di sangue. Questo indica che una presente attività cardiocircolatoria. Chi le ha fatto questo è stato terribilmente brutale ma anche molto attento a non esagerare. Ci sapeva fare, insomma.”
Castelli rimase in silenzio per un momento, giusto per smaltire la novità
“Ora del decesso?”
“Anche qui sarò più esatto dopo le analisi, ma direi non prima di ieri sera.”
“Va bene. Grazie dottore, attenderò il suo rapporto.”
Castelli si allontanò dal luogo del ritrovamento e si incamminò verso i cancelli. Aveva bisogno di respirare aria fredda, nuova e pulita. C’erano aspetti del suo mestiere a cui non si era ancora abituato, nonostante venti anni di servizio. Uno di questi era il dolore. Non sopportava di vederlo, di immaginarlo inflitto ad altri. Lo percepiva reale sulla propria pelle, lo immagazzinava da qualche parte nello stomaco e non se ne liberava più. Una specie di memoria sofferente che lo abitava senza scampo. Anche per questo trovare l’artefice di quei tormenti gli diventava necessario: quando una qualche giustizia veniva stabilita, una piccola porzione di crudeltà lo abbandonava. E lui viveva meglio.
In quel momento il suo livello di sopportazione era stato drasticamente superato e sentiva la necessità di fare due passi. Sperava che osservando l’intenso azzurro del cielo almeno una parte di quella serenità sarebbe scesa anche su di lui, a levare quel senso di dolore che gli si era incollato all’anima.
Come diceva il poeta?
Pene tu spargi a larga mano; il duolo
Spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto
Che per mostro e miracolo talvolta
Nasce d'affanno, è gran guadagno.
Spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto
Che per mostro e miracolo talvolta
Nasce d'affanno, è gran guadagno.
Non ricordava a quale poesia appartenessero le rime che stava cantilenandosi in mente e neppure se lo domandava. Forse era Leopardi, ma tirava a indovinare. Ormai non faceva più caso a quello strano vezzo della sua personalità: brani di componimenti che aveva mandato a memoria ai tempi della scuola emergevano anarchici dalla sua memoria, nelle circostanze più disparate. Un po’ come accade alla gente normale quando, senza farci caso, si mette a canticchiare il ritornello di un tormentone estivo. A lui invece succedeva con i grandi maestri della lingua italiana, e non poteva farci nulla. A colpirlo rimaneva solo il fatto che quei brani fossero sempre pertinenti con la situazione che stava vivendo. Come se il suo cervello avesse in quel modo individuato un metodo per rielaborare ciò che la ragione non riusciva a riconoscere, o ad accettare, nell’immediato.
Accanto ai cancelli trovò un grosso mattone in calcestruzzo, vi si accovacciò sopra e rimase a osservare a distanza il lavoro frenetico di tutti gli agenti. Giordano si muoveva con una rapidità e un vigore che non mancavano mai di sorprenderlo. Ma da dove la prendeva tutta quella energia? Lui forse neppure ai tempi dell’asilo era così vivace. Rimase imbambolato a fissare la scena cangiante davanti ai suoi occhi per lungo tempo, incurante del vento freddo che si insinuava nel giaccone e della polvere che s’incortecciava ai capelli. Fumando tutte le sigarette a cui quella mattina aveva rinunciato per via dell’apnea notturna, cioè quelle sacrosante della sveglia, del dopo caffè, del viaggio in auto e dell’arrivo, rimase immobile su quel mattone quasi fosse parte del paesaggio, oggetto inanimato nell’armonia del creato. Ma sedendo e mirando non trascorse i minuti nell’ozio, anche se a prima vista era quella l’impressione che dava. Anzi. Da un lato stava smaltendo lo stordimento interiore causato dalla visione della donna fracassata, e dall’altro fissava nei suoi occhi ogni dettaglio su cui posava lo sguardo, con un procedimento inconsapevole che somigliava molto a quello dell’unità mobile per il rilevamento fotografico.
La capacità fotografica del suo cervello l’aveva sempre aiutato nella vita, nello studio e nel suo lavoro. Lui la utilizzava spesso perché gli veniva naturale, una risorsa che non gli costava nessuno sforzo. Gli riusciva bene utilizzare ciò che non gli procurava fatica, accomodante anche nel talento.
Dopo un paio d’ore impiegate da Castelli nella contemplazione, l’ispettore Giordano gli si avvicinò, sedendosi sul mattone accanto al suo. Quel commissario era l’individuo più strano che avesse mai conosciuto, e proprio per questo lo adorava. Gli levò dalle dita il mozzicone spento dell’ultima sigaretta fumata e lo scrollò su una spalla.
“Commissario, abbiamo finito, stiamo per andare.”
“Giordano, qui c’è qualcosa che non va.”
“Qui dove?”
“Nelle fotografie.” Disse picchettandosi l’indice sulla tempia.
Giordano comprese a cosa si stesse riferendo.
“E cosa?”
“Ancora non lo so, ma col tempo verrà fuori. Una nota stonata.”
“La posso aiutare?”
“No, non servirebbe. Quando capita così non posso far altro che aspettare che il mio cervello si prenda i suoi tempi. La conosci la storia dei criceti da laboratorio?”
“I criceti?”
“È stato provato che i criceti, una volta messi in un labirinto alla fine del quale c’è il cibo, lo perlustrano più volte, poi si addormentano, e nel sonno sognano del labirinto. Il loro cervello rielabora l’esperienza per trovare la via più breve per il cibo, da utilizzare la volta successiva.”
“E lei sarebbe un criceto?”
“Detta così non mi suona molto bene.”
Si alzarono e si incamminarono fino alle rispettive automobili.
Com’è che Giordano aveva un BMW e lui soltanto una Stilo? Prima o poi gliel’avrebbe dovuto chiedere.
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