" E' l'ora di perdere per sempre l'innocenza: questo stupore delle creature che ancora non sono riuscite a caricarsi della memoria del mondo al quale sono nate "
Francisco Urondo
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Gli alveari
Era il giorno precedente a quello in cui avrei compiuto gli otto anni quando un mio compagno si precipitò da noi per urlare a mia madre che Eugè, il maggiore dei suoi figli, giaceva in una pozza di sangue a due isolati di distanza, morto ammazzato da un coltello per un motivo tra i più futili, per voi che leggerete.
Nel basso, le urla di mammà, di nonna Teresì e delle mie sorelle straziarono l'aria greve di melanzane fritte, poi rimbombarono sui muri di fronte e rotolarono giù per gli scalini fino alla piazzetta, ed all' insù, fino alla fontanella che non pisciava più acqua se non scalciandovi a forza nelle tubazioni.
Quel giorno la scalinata, che puzzava di tutto, puzzò ancor di più per il tanfo del vomito delle mie donne, che prevalse su di ogni altra cosa.
Tutti gli abitanti della calle Venente seppero, così, che Eugè, Eugenio Esposito detto " 'o Nigre " per quanto erano neri i suoi capelli e ricci, ed olivastra la sua pelle, non avrebbe più fatto ritorno tra i vivi.
Nei giorni che seguirono, moltissime persone s'affacciarono alla nostra cucina con i sorrisi inchiodati sotto il naso, sostenendo delicatamente la tenda senza avanzare oltre, chiedendoci se c'era bisogno di qualcosa, qualunque cosa.
I maschi non venivano per sé solamente; erano mandati dalle mogli o dalla madri che preferivano mandarli in avanscoperta. Quei pochi che ebbero la ventura di capitare per conto proprio già sapevamo che erano papponi, venuti a studiare anch'essi la situazione.
Tutta questa massa di persone, conoscenti e non, uomini e donne, girava gli occhi in lungo e in largo nelle due stanze contandoci più volte per paura di sbagliarsi, perchè un basso così, ora che non c'era più un uomo in famiglia, faceva gola a tutti.
Per una settimana fu un continuo andirivieni, finchè una sera nonna Teresì non disse a Rosa, mia madre, di mettere il legno di traverso e di farsi rivolgere la parola solo attraverso la porta.
Dapprima Rosa la guardò senza capire, poi capì e la guardò in cagnesco, poi lo fece; credo perchè anche lei si rendeva conto che prima di poter trovare un altro uomo poteva perdere la casa.
La processione durò tre giorni ancora.
Quell’anno avevo iniziato a dare una mano ai pescatori giù al porto.
Il salario era costituito da una mezza cassetta di pesce ogni sbarco; naturalmente si trattava del pesce più minuto, il più rovinato dalle reti.
Poi, però, man mano che crescevo, quel pesce divennne sempre meno rovinato.
Mio fratello Eugè, che l'aveva fatto prima di me, mi ci aveva costretto insegnandomi anche a suddividere quel che non consumavamo per clienti.
Dai privati si spuntava qualcosina in più che dai negozianti, ma si era meno sicuri che comprassero, per cui avevo provveduto ad organizzarmi a modo mio: avevo ampliato la zona ed accettavo permute.
Così, di mano in mano che i pesci calavano, nella cassetta potevano comparire pane e verdura. La frutta però, dovetti continuare a raccoglierla di notte nei giardini.
Altra cosa, i privati pagavano in contante, i negozianti a tre giorni, anche quattro.
Eugè mi picchiava a sangue per questo, anche per sentirsi un vero uomo, fino a che nonna gli disse che avevo ragione io; così questo mio fratello che vedevo come un dio smise di picchiarmi.
Morto lui, rimanemmo in quattro fratelli. Concè era la più grande, un anno e mezzo più di me, poi venivano altre due femmine.
Entrata nei tredici anni, ella si fidanzò con Peppì, un perdigiorno che abitava in cima ad un' altra scalinata parallela alla nostra ma più stretta, il quale, poco dopo il fidanzamento, la portò a stare con la famiglia.
Le sere d'estate, ora che non tiravano più i venti della guerra, io e gli altri scugnizzi del quartiere arrivavamo fino alle banchine dove ormeggiavano le navi commerciali di grossa stazza, cercando di guadagnarci qualche extra.
Insieme a due di questi amici cominciai ad abbordare i marinai che ancora a vederli a bordo, affacciati alle murate a guardare di sotto, sembravano i meglio votati. Facevamo loro smorfie e sberleffi perché ci tenessero bene a mente poi, una volta scesa la scaletta, li accompagnavamo per mano come bambini, in fondo alla banchina dove tra i doks e le gru si trovava un capanno tirato su coi bidoni della nafta, coperto con una latta.
Non li lasciavamo mica andare da soli, quei ragazzoni di tutti i colori, ma soprattutto i neri; ci adoperavamo di monetizzare la nostra tangente per averli portati lì prima che finisse la gimkana dei depositi e sbucassero sul piccolo scoperto, perché conoscevamo il rischio.
Lo strano era che noi le "zoccole" nemmeno le conoscevamo; non le avevamo mai viste, né mai, rischiando il linciaggio, ci eravamo accordati con i loro uomini.
Una di quelle sere riconobbi la sua voce che chiedeva un regalo in più per "l'arrete", così mi fermai ad aspettare che avesse finito.
Concè, prima che comparisse Peppì, trovò il tempo per dirmi che era felice; si volevano bene. Ogni sera alle undici, puntuale come un orologio, mai una volta che l’avesse lasciata sola ad aspettare, egli veniva a prenderla per riaccompagnarla a casa.
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