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Parole e Silenzi

Avevano la possibilità dopo un solo breve sonno di riemergere più alacri che mai.
In loro questi temporanei riposi erano sieste, piccole pause tra un lavoro ed un altro, poggiarsi sui rami apicali dei gelsi per così avvolgersi nel mantello, il bozzolo.
Il procedimento da cui nasce il filo più duro e morbido del creato, avete presente?
Ritemprandosi si auto arricchivano di nuovo DNA per spiccare di nuovo il balzo, per i voli successivi.
Di cosa erano fatte queste loro metamorfosi?
Semplicemente d’atmosfera, che impattavano, sezionavano e facevano propria: il nutrimento, l’ambrosia.
Due pressioni, una sopra, una sotto l’ala.
Ed allora potevi vederli salire o scendere a loro piacimento, fulminando d’un guizzo sottopiuma il muscolo pettorale; nelle pupille da falco pellegrino tutto ciò che si stendeva a vista sotto di loro.
Erano capaci di volare nonostante possedessero le ossa, non cave, ma non erano bachi, non erano farfalle né formiche alate, né api.
Non erano uccelli.
Come loro però raccoglievano ogni utilità e costruivano: meraviglie. Con quel filo che usciva loro dalla bocca.
Quando ci rendemmo conto della perfezione delle loro volte, della profondità generata dalla successione dei colonnati, la brillantezza dei mosaici, la complessità dell’arabesco, di come da un semplice sonno avessero potuto dar luogo allo spazio, il chiaro e l’ombra, il vuoto e il pieno; quando fummo presi dalla consapevolezza della fragilità delle guglie sospese contro il cielo per superarlo in armonia, quando vedemmo le città sorgere, un campo divenire una piazza, un angolo di terra una fontana celeste come una laguna e adagiarvisi sopra una nuvola bianca, osannammo dall’esterno quell’ardire vertiginoso, quel costruire dalla materia informe le forme, quella loro invenzione, e li definimmo.
Li chiamammo architetti, forse perché quello era l’unico tra i nomi a poter richiamare anche ai nostri figli la possibilità di questi uomini di piegare ad arco, trasformandocelo sotto gli occhi, quel blocco di travertino che avevamo staccato all’amorfità della Terra.
Forse, perché quei colori: rosso, bianco, arancio, giallo, blu, oro che la fiamma delle torce aveva fatto entrare dentro i nostri occhi, una volta che eravamo risaliti in superficie, con la parola e con i silenzi come pinze e scalpelli, essi ce li sapevano sradicare dalle viscere.

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