Scritto da © 'O Malament - Lun, 23/06/2014 - 13:46
Per molti anni l'avevo ascoltata lamentarsi e, a otto anni, avevo probabilmente compreso perché si lamentasse. Si lamentava quando era già buio e noi dormivamo o facevamo finta di dormire, per ascoltarla, una volta rientrati dalla strada.
I nostri sensi si erano acuiti già percependo la presenza estranea che respirava nella stanza e della quale non conoscevamo alcuna sembianza. Sapevamo solo che quel respiro era un maschio di colore, colore come il nostro, perché quello era un ghetto nero e i culi bianchi non s'azzardavano, con le loro macchine, nemmeno a passarci correndo , per quelle strade perennemente invase dai sifoni che scoppiavano bastava che posassi l'occhio. Tiravamo a indovinare sull'età dal respiro del visitatore, da come prendeva la piega il respiro ad un certo punto, e null'altro. Solo in quella impresa potevamo riuscire..
Esther, Elisabeth e io, Gommy, che sta per Gonzales e Tom, o qualcosa di simile, perché allora, prima che nascessi, mamma stava con un portoricano, scommettevamo solo su questo, sul respiro per sapere quando la presenza avrebbe raccolto i suoi vestiti e liberato il posto a letto.
Nel frattempo, tutti e tre, a turno, ci saremmo addormentati ai piedi del letto e lì avremmo continuato a dormire finché non avesse suonato la sveglia al mattino. Speravamo in un'ora o due. Un'ora o due per infilarci nel letto intiepidito.
Esther, la sorella maggiore, era delegata a preparare la colazione, a raccomandarci immancabilmente di far presto e a toglierci le sedie da sotto il culo per scaraventarci poi giù per le scale esterne, ad aspettare al palo originariamente grigio, poi colorato come un tatuaggio, il pulmino giallo. Tempesta di neve o pioggia, o sole che già iniziava a bruciare, sempre la stessa ora e minuto. Sempre lo stesso stridio delle gomme dello stesso pulmino.
Mamma, che il respiro necessitasse di un ansiolitico o, invece di interrompersi a sprazzi si fosse fatto pressante fino a sovrastare il suo, tirava dritto a dormire fin oltre il termine della nostra colazione, fin quando, se eravamo fortunati, si indovinava l'ombra rossa della sua vestaglia occupare tutto l'angusto vetro zigrinato del bagno.
La si rivedeva seduta oltre la vetrata del bar d'angolo, di là della strada, sul lato opposto alla fermata dell'autobus scolastico che ci scaricava, a sorseggiare dal collo della bottiglia la sua RCola. Per lei non c'erano sabati e domeniche, né feste comandate tranne Natale e Festa del Ringraziamento, solo per il motivo che ogni tipo di locale o iper o super market o distributore per quei due giorni rimaneva chiuso in tutti gli Stati, dal New Mexico alla California fino a Washington D.C.
La trovavamo bella, nella sua stazza fungiforme appollaiata sul suo sgabello, sempre lo stesso come quel vestito che pareva la bandiera tranne forse che al posto del blu c'era dappertutto il rosso che lei amava o, come ci disse Esther, rimanevano così tanti pochi soldi dopo l'affitto per la stanza con bagno al terzo piano sopra la ferramenta dei Chester, dopo aver mangiato e pagato le tasse scolastiche e il pulmino, dopo le scarpe a zeppa di sughero ogni otto mesi e le mutandine due ogni quadrimestre, che non avrebbe pouto cambiarlo nemmeno se all'emporio le avessero proposto un acquisto a rate.
Era bello il suo sorriso a fossette, per ciò mamma non rimaveva mai senza clienti, e rimorchiava quasi tutte le sere. A meno che non capitasse un diluvio. Allora tornava molto prima e ci pareva tetra come la luce dell'unica lampadina alimentata dal contatore degli anni '40 degli stessi Chester.
" Dura mamma eh, quando diluvia", la scuoteva Elisabeth, e mamma ricominciava a sorridere e andava al frigorifero dove c'erano sempre almeno due confezioni di uova a lunga conservazione della Mc'Kaine.
Solo una volta l'ho sentita inbufalirsi veramente. Il respiro era di quelli che non perdonano, avrebbe con tutta probabilità continuato fino all'alba se non fosse stato interrotto dal suo no secco come una frustata sulla schiena di uno schiavo.
Esther, il mattino, ci disse che prima di quel niente, le pareva di aver sentito in un sussurro il suo nome. Le pareva.
Mamma, però, non confermò mai la sua versione. E continuò a battere anche quando diventammo grandi per andarcene uno dopo l'altro.
A me, l'ultimo ad andarmene, disse che non poteva sentirsi sola, che non ce l' avrebbe mai fatta senza una RCola.
I nostri sensi si erano acuiti già percependo la presenza estranea che respirava nella stanza e della quale non conoscevamo alcuna sembianza. Sapevamo solo che quel respiro era un maschio di colore, colore come il nostro, perché quello era un ghetto nero e i culi bianchi non s'azzardavano, con le loro macchine, nemmeno a passarci correndo , per quelle strade perennemente invase dai sifoni che scoppiavano bastava che posassi l'occhio. Tiravamo a indovinare sull'età dal respiro del visitatore, da come prendeva la piega il respiro ad un certo punto, e null'altro. Solo in quella impresa potevamo riuscire..
Esther, Elisabeth e io, Gommy, che sta per Gonzales e Tom, o qualcosa di simile, perché allora, prima che nascessi, mamma stava con un portoricano, scommettevamo solo su questo, sul respiro per sapere quando la presenza avrebbe raccolto i suoi vestiti e liberato il posto a letto.
Nel frattempo, tutti e tre, a turno, ci saremmo addormentati ai piedi del letto e lì avremmo continuato a dormire finché non avesse suonato la sveglia al mattino. Speravamo in un'ora o due. Un'ora o due per infilarci nel letto intiepidito.
Esther, la sorella maggiore, era delegata a preparare la colazione, a raccomandarci immancabilmente di far presto e a toglierci le sedie da sotto il culo per scaraventarci poi giù per le scale esterne, ad aspettare al palo originariamente grigio, poi colorato come un tatuaggio, il pulmino giallo. Tempesta di neve o pioggia, o sole che già iniziava a bruciare, sempre la stessa ora e minuto. Sempre lo stesso stridio delle gomme dello stesso pulmino.
Mamma, che il respiro necessitasse di un ansiolitico o, invece di interrompersi a sprazzi si fosse fatto pressante fino a sovrastare il suo, tirava dritto a dormire fin oltre il termine della nostra colazione, fin quando, se eravamo fortunati, si indovinava l'ombra rossa della sua vestaglia occupare tutto l'angusto vetro zigrinato del bagno.
La si rivedeva seduta oltre la vetrata del bar d'angolo, di là della strada, sul lato opposto alla fermata dell'autobus scolastico che ci scaricava, a sorseggiare dal collo della bottiglia la sua RCola. Per lei non c'erano sabati e domeniche, né feste comandate tranne Natale e Festa del Ringraziamento, solo per il motivo che ogni tipo di locale o iper o super market o distributore per quei due giorni rimaneva chiuso in tutti gli Stati, dal New Mexico alla California fino a Washington D.C.
La trovavamo bella, nella sua stazza fungiforme appollaiata sul suo sgabello, sempre lo stesso come quel vestito che pareva la bandiera tranne forse che al posto del blu c'era dappertutto il rosso che lei amava o, come ci disse Esther, rimanevano così tanti pochi soldi dopo l'affitto per la stanza con bagno al terzo piano sopra la ferramenta dei Chester, dopo aver mangiato e pagato le tasse scolastiche e il pulmino, dopo le scarpe a zeppa di sughero ogni otto mesi e le mutandine due ogni quadrimestre, che non avrebbe pouto cambiarlo nemmeno se all'emporio le avessero proposto un acquisto a rate.
Era bello il suo sorriso a fossette, per ciò mamma non rimaveva mai senza clienti, e rimorchiava quasi tutte le sere. A meno che non capitasse un diluvio. Allora tornava molto prima e ci pareva tetra come la luce dell'unica lampadina alimentata dal contatore degli anni '40 degli stessi Chester.
" Dura mamma eh, quando diluvia", la scuoteva Elisabeth, e mamma ricominciava a sorridere e andava al frigorifero dove c'erano sempre almeno due confezioni di uova a lunga conservazione della Mc'Kaine.
Solo una volta l'ho sentita inbufalirsi veramente. Il respiro era di quelli che non perdonano, avrebbe con tutta probabilità continuato fino all'alba se non fosse stato interrotto dal suo no secco come una frustata sulla schiena di uno schiavo.
Esther, il mattino, ci disse che prima di quel niente, le pareva di aver sentito in un sussurro il suo nome. Le pareva.
Mamma, però, non confermò mai la sua versione. E continuò a battere anche quando diventammo grandi per andarcene uno dopo l'altro.
A me, l'ultimo ad andarmene, disse che non poteva sentirsi sola, che non ce l' avrebbe mai fatta senza una RCola.
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