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Quando sarà il tempo

Devo arrivare lassù, dove c’è luce. 
Non faccio fatica, sembra quasi di essere attratti. 
Qui non c’è niente, solo buio e silenzio. 
Non ho paura, non posso e non voglio averne. Forse dovrei, ma voglio arrivare alla luce. 
Sento una voce che mi chiama.
Ora le voci sono una moltitudine ansiosa.
Lasciatemi andare, voglio arrivare lassù, dove c’è luce.
Non so perché.
Credo mi stiano aspettando.
È come da piccoli, nelle serate estive, quando si faceva il girotondo e poi ci si buttava a terra mentre il mondo ti girava attorno e la luna sembrava avvicinarsi fino a inghiottirti.
Sono felice.
La luce è scomparsa. Sento freddo.
Intorno a me urla, lamenti, singhiozzi. Degli occhi mi guardano. Una voce mi parla.
La luce è scomparsa. Sento sempre più freddo.

Infine il ricordo riaffiora e con lui la tristezza.
 
Mi ero ricoverato in ospedale per fare degli accertamenti. Analisi, esami diagnostici, visite specialistiche. Nulla che non avessi potuto fare restando a casa, ma avevo scelto l’ospedale. Per comodità, mi dicevo, ma sapevo che non era vero. Era solo un’altra tappa della mia fuga.
Quegli occhi continuavano a guardarmi e la voce a parlare. Erano di un medico che non conoscevo. Intorno a lui figure vestite di bianco. Altri medici, forse infermieri. Sentivo ripetere il mio nome ma non capivo il perché. L’ultima cosa che riuscivo a ricordare era un’infermiera munita di siringa che stava prelevandomi del sangue, poi quella salita inarrestabile verso la luce, infine tutti quei camici che mi circondavano. Il medico continuava a parlarmi, dai suoi lineamenti meno tirati mi rendevo conto che qualsiasi cosa mi fosse accaduta ora si stava normalizzando. Sentii il letto muoversi e vidi le luci del soffitto sfilare davanti a miei occhi. Mi stavano portando in un altro reparto. Avrei voluto chiedere qualcosa ma la maschera dell’ossigeno me lo impediva. In breve mi collegarono a una macchina che subito emise un ronzio. 
 
Non ricordo da quanto tempo stessi scappando. A me sembrava da una vita intera. Non ricordo nemmeno di aver vissuto momenti di intensa felicità come quelli provati in quella specie di sogno in cui cercavo di salire verso la luce. Era una fuga, la mia, che si concretizzava nel subire passivamente le circostanze, senza voler interagire con la realtà per apportare delle modifiche dettate dalla mia volontà. La mia era una manifesta dichiarazione di resa. Che fossero gli altri a guidare, quelli che nel corso della mia esistenza avevano scelto per me. 
 
- Un arresto cardiaco. –
La secca risposta alla domanda mi lasciò interdetto. Volevo sapere che cosa era successo e non appena fui in grado di parlare lo chiesi al medico di quel reparto. Non l’avevo sognata, quindi, quella luce. L’avevo vista davvero.  L’avevo vista dentro di me, e avevo deciso di non condividere con nessuno quella esperienza. Avevo trovato un altro posto per nascondermi.
Restai in quell’ospedale per altre due settimane. Nuovi esami si aggiunsero a quelli già previsti, nel tentativo di ricercare le cause di quell’evento potenzialmente infausto. Il giorno che me ne andai dall’ospedale mi venne consegnata una cartella clinica dove, a proposito dell’arresto cardiaco, si citavano delle cosiddette “cause vagali” motivandone l’insorgenza come una possibile reazione del mio organismo all’azione invasiva del prelievo di sangue fatto in momento quale il risveglio, quando le funzioni vitali possono essere ancora preordinate dal sistema “vagale”, normalmente deputato alla fase notturna del sonno. Troppe parole per definire un concetto che invece io avevo ben capito. C’era quella luce in me. Dovevo trovarla.
La convalescenza durò un mese, durante il quale le amorevoli cure di mia moglie raggiunsero livelli parossistici. Non avevamo avuto figli e lei, come balia che dona il suo latte in eccesso, riversò su di me tutte le attenzioni e le cure che non aveva potuto donare a un bimbo. Eravamo sposati da circa dieci anni, e fin dall’inizio la sua persona aveva prima affiancato i miei genitori nel ristretto novero delle persone che si erano riservate l’ingrato compito di dirigere la mia vita, per poi sostituirle in seguito alla loro morte improvvisa avvenuta in un incidente automobilistico. Quando riuscivo a restare solo avevo preso l’abitudine, dopo aver chiuso le tapparelle e spento le lampade, di rimanere nel buio completo nel vano tentativo di poter ricreare quell’ambiente in cui fluttuavo verso la luce. Solo la sera, dopo essermi coricato, nell’attimo che precede il sonno quando la mente si appresta ad accogliere i sogni, per un solo momento riuscivo a vederla. Ed era bellissimo. 
“In qualche vecchia rivista o giornale, ricordo di aver letto la storia, riferita come vera,  di un uomo, cui daremo il nome di Wakefield, il quale abbandonò per lungo tempo sua moglie.”
Essendomi stato vietato di fare ogni tipo di sforzo dal mio medico, precetto che mi guardai bene dal non osservare, nella mia totale dedizione alla disciplina e al rispetto delle regole, non potendo quindi uscire di casa,  mi ero dedicato alla rilettura di alcuni autori che avevo un po’ trascurato, tra cui appunto Hawthorne, al quale appartiene l’incipit prima citato. Lessi il racconto in un attimo, e poi lo rilessi di seguito più volte. Come tutti gli imbelli, provavo soddisfazione nel immedesimarmi con personaggi fittizi. Con Wakefield avvenne nell’immediato. Eppure si trattava di un essere meschino, che aveva abbandonato la moglie senza motivo per rifugiarsi in una casa situata in una strada vicina alla sua, da dove poterla spiare tutti i giorni. Questo per vent’anni. Per poi ritornare a casa come se nulla fosse avvenuto.  Mi vergognavo di me stesso a ogni rilettura di quel racconto finché non riuscii a capire che ciò che mi interessava era non tanto il fine quanto il mezzo. “…prese alloggio in una strada vicino alla sua casa…”
Arrivai al lavoro con qualche minuto di ritardo, dopo aver parcheggiato l’auto al suo solito posto e aver percorso lo stesso vialetto, come sempre avevo fatto negli ultimi quindici anni. Con l’eccezione del mese di convalescenza appena trascorso, non ero mai mancato dal lavoro. 
Arrivato di fronte al portone d’ingresso mi colse una leggera vertigine, come se vedessi quel posto per la prima volta. Esitai per alcuni istanti, poi entrai. 
Per compiere il breve tragitto dall'ingresso all'ufficio mi occorse almeno dieci volte il tempo necessario, dovendo salutare tutti i colleghi premurosamente accorsi per informarsi sulle mie condizioni di salute. Dai loro modi, dagli sguardi e dagli ammiccamenti compresi che di tutti loro forse un paio potevano dirsi sinceramente interessati. Gli altri invece volevano solo capire come insinuarsi nella fenditura che quella vicenda ospedaliera aveva causato nella mia finora integra carriera, per provare ad allargarla. Dopo essermi tolto la giacca mi sistemai sulla poltrona, che trovai meno comoda del solito. Mentre osservavo minuziosamente l’ufficio che mi ospitava da così tanti anni e che quel giorno mi appariva, per la prima volta, in tutto il suo squallore, bussarono alla porta. Era un impiegato del mio reparto, il più anziano, che dopo i naturali convenevoli cominciò con sollecitudine il rapporto dettagliato di tutto ciò che era successo durante il mio mese di assenza. Per ordine del mio medico personale durante la convalescenza avevo dovuto troncare ogni contatto con l'ufficio, lasciandomi pertanto privo di qualsiasi informazione.
Mentre quell’uomo parlava di cose che in quel momento mi sembravano incomprensibili, lasciai che la mia fantasia percorresse vie di antica memoria, ormai difficili da praticare. 
- Ingegnere!?-
- Mmm…-
- Mi scusi.-
Mi ripresi subito da quel momento di abbandono, guardando dritto negli occhi quel povero uomo, dove colsi un velo d’orgoglio che subito abbandonò abbassando lo sguardo.
- Senta, facciamo così, mi lasci la sua relazione che poi leggerò più tardi. Mi scusi, ma ora non ho tempo.-
L’impiegato mi porse i suoi appunti con una piccola esitazione, come se nel separarsi da quei fogli provasse dolore. Erano una decina di cartelle scritte a mano con una minuta calligrafia d’altri tempi, chiara e perfettamente leggibile. Pensai a quanta dedizione doveva aver impiegato nella stesura di quelle pagine e alla mia mancanza di considerazione. Lo accompagnai alla porta ringraziandolo per la sua premura. Mentre si allontanava lo guardavo con preoccupazione, domandandomi se per caso mi stavo specchiando.



 
Rimasi solo nel mio ufficio, osservando perplesso quel manoscritto, poi squillò il telefono e lentamente rientrai in una veste che con difficoltà riuscivo a riconoscere come mia. Dopo aver guardato la posta elettronica e visionato le pratiche sulla scrivania mi resi conto che stavo riappropriandomi del mio habitat.
 Erano bastati pochi minuti in quell’ambiente perché l’alienato che era in me prendesse il sopravvento. Aprii la cartella della posta e cominciai meccanicamente a controllare i documenti. La corrispondenza era già stata aperta e protocollata, in poco tempo finii e rimisi tutto a posto in un angolo della scrivania. Fu allora che vidi quella busta, finora sfuggita al mio sguardo perché celata dalle pratiche che si erano ammucchiate sopra.
 Era una busta bianca con l’intestazione di una casa di riposo per anziani di un paese vicino, indirizzata a me personalmente. Osservai la lettera attardandomi nella sua apertura, alla ricerca di un possibile indizio che potesse rivelare il suo significato ma non trovai nulla.
 Decisi infine di aprirla, e di carpirne il mistero.

 
“Caro Giulio
 scusami se ho scelto questo mezzo per prendere contatto con te, ma sai alla mia età si preferisce scrivere su di un foglio piuttosto che usare il telefono o quei mezzi che ci sono adesso, i computer: figurati, non so nemmeno come si accendano; no, molto meglio la scrittura, che ci permette di pesare le parole e scegliere quelle giuste.
 Scusami di nuovo, ma nell'ospizio in cui abito il tempo passa così lentamente e con una tale monotonia che temo che le mie funzioni cerebrali tendano ad atrofizzarsi in misura maggiore di quanto non provveda normalmente la natura. 
Vengo subito al dunque, che il tempo non aspetta ed io ti devo assolutamente parlare. 
Sono Ada, la tua maestra delle scuole elementari, una voce che proviene dal tuo passato.
 Come stai, testolina mora, caro timido e bellissimo bambino? Ti ricordi di me? Spero di sì. Ho di fronte la tua fotografia di allora, e ti chiedo di nuovo scusa se ti parlo e ti tratto come a quei tempi, ma è così che ti ricordo. So che ora sei diventato importante, non temere, quando ci rivedremo saprò stare al mio posto, ma ora, lasciami la grazia e il piacere di ricordarti come eri da bambino. 
Sto morendo, Giulio, mi è rimasto davvero poco tempo. Ho bisogno di parlarti, quanto prima possibile. Ciò che devo dirti è importante. Non posso andarmene senza averti detto ciò che so.
 A presto
. 
Ada Carlini” 

Rilessi la lettera una seconda volta, incredulo di ciò che i miei occhi stavano scorrendo, infine la posai sulla scrivania, mi tolsi gli occhiali da lettura, scostai la sedia dalla scrivania per potermi distendere e andai con i ricordi ai tempi delle elementari. 
La maestra Ada, eccome se la ricordavo. 
Era una splendida persona, in cinque anni di scuola non credo abbia mai alzato la voce, sempre calma e sorridente, sempre disponibile con noi. 
Non la vidi più, se non sbaglio fu trasferita in un’altra scuola subito dopo la fine del mio quinto anno scolastico. Quell'estate, prima di andarsene, invitò i suoi alunni a casa sua, dove salutò tutti uno per uno. Io fui l’ultimo e al momento la presi male. Poi, giunto il mio turno mi prese da parte, mi abbracciò forte, mi accarezzò e mi fece un lungo discorso, di cui sinceramente non ho memoria, tranne le ultime parole:  - ... ricorda, Giulio, che io sarò sempre con te. – 

Aprii la finestra. L’aria dell’ufficio mi sembrava pesante, opprimente.  Una folata di vento gelido proveniente da est entrò nella stanza, agitando le tende e scompaginando delle carte. Ero colto da mille interrogativi sul senso di quella lettera, procurandomi agitazione che sommata a quella dovuta al mio ritorno al lavoro si stava trasformando in inquietudine. Stavo guardando di fuori il consueto panorama che la mia finestra poteva offrire quando  qualcosa attirò la mia attenzione. Non c’era niente di particolare da vedere, se non le case, le strade, la gente, le auto. Avevo visto quello scenario per anni senza che me ne accorgessi, e ora… non era tanto ciò che potevo vedere la causa della mia sorpresa, quanto quello che non vedevo. Cos’e che mancava da quanto stavo vedendo di fuori?  Non mi ero mai accorto di quella dissonanza, fino a quel momento.
Continuavo a guardare fuori. Poi, all’improvviso, capii. Lo sapevo da sempre, ma finora avevo fatto finta di ignorarlo. Ogni volta che avevo guardato fuori, negli ultimi anni, lo avevo capito. Salvo poi relegare quella consapevolezza in un recondito angolo della mia coscienza, fino a dimenticarmene. 
Misi la lettera in tasca e uscii dall’ufficio dirigendomi verso le scale che scesi rapidamente tra le occhiate meravigliate dei miei colleghi. Il portiere accorse trafelato chiedendomi se mi sentissi male. Senza fermarmi risposi di no mentre con le mani spingevo le ante in vetro del portone, ritrovandomi all’esterno. Mi diressi allora verso un bar situato nelle vicinanze, guardando ogni tanto verso la finestra del mio ufficio, l’unica vuota in mezzo ad altre affollate da una moltitudine di facce. 
Seduto al tavolino del bar tirai fuori dalla tasca la lettera della maestra Ada per rileggerla, ma prima volli togliermi la soddisfazione di guardare ancora una volta verso quelle finestre dalle quali i miei colleghi finalmente potevano osservare il quadro completo.
Guidavo da circa mezzora, quando dopo una curva vidi in lontananza il colle su cui era arroccato il paese di Poggio San Carlo, dove era situata la casa di riposo. A fianco, sul sedile del passeggero, c'era la lettera della maestra Ada. L’avevo letta più volte, seduto al tavolino di quel bar, nel tentativo di coglierne il senso che però mi sfuggiva. Mi venne in mente allora una cosa che mi aveva detto proprio la maestra quando mi salutò “…ricorda Giulio, le cose avvengono perché devono avvenire.” Non capii, allora, il significato di quelle parole.  In quel momento, invece, tutto mi sembrava chiaro. La strada che stavo percorrendo per raggiungere la mia vecchia maestra era quello che stavo cercando. Una barriera da interporre tra me e mia moglie. La fuga dal lavoro senza temerne le conseguenze, l’accorrere al richiamo di una persona cara del passato erano tutte manifestazioni di quella volontà. Accelerai.
Parcheggiai l'auto nella piazza, mi fermai un poco per osservare le varie costruzioni da cui era cinta quando notai in fondo alla via un palazzo ottocentesco che corrispondeva, come forma e ubicazione, alla descrizione della casa di riposo che mi era stata fornita telefonicamente da un'impiegata.  
Mi avviai verso quell'edificio; giunto all'ingresso, provai a spingere il portone che non si aprì. Suonai il campanello e dopo alcuni secondi udii una voce metallica provenire dal citofono.
 
- Chi è? –
- Senta, scusi, devo fare visita a una vostra ospite. Può apr...-
- 
Le visite sono consentite solo nel pomeriggio. – 
Intimò la voce d'acciaio, chiudendo la comunicazione. Suonai di nuovo. 
- Chi è? – 
- Senta, ho un appuntamento con la signora Ada Carlini. Ho già parlato con il vostro direttore. –

Mi rispose il silenzio. Cominciavo a innervosirmi.

- Perché non l’ha detto subito? Il suo nome per favore.-
- Montini. Giulio. -
Sentii il secco scatto del meccanismo di apertura elettrica del portone.
 Dopo una rampa di scale mi ritrovai in un lungo corridoio con un alto soffitto a volta che conferiva all'ambiente un tono severo. 
- Signor Montini! – 
Qualcuno mi stava chiamando da una stanza a fianco. Mi avvicinai. 

- La stanza della signora è la numero 18. Mi raccomando, usi la massima attenzione. La signora sta molto male. E qui non sono tollerati rumori molesti. –
Un impiegato dai lineamenti duri, affilati era uscito dalla stanza per redarguirmi. 
"Povera maestra Ada" pensai mentre mi stavo dirigendo verso la sua camera. 
Giunto di fronte alla porta della camera numero 18 bussai sommessamente. Rimasi fermo ad ascoltare, senza udire nessuna voce. Bussai di nuovo, questa volta con più decisione. Entrai.
 
Perché una persona adulta, con un livello tutto sommato decente d’istruzione, nella piena consapevolezza di rivedere per la prima volta una persona a distanza di tanti anni, rimanga sorpreso nel constatarne il grande cambiamento provocato dallo scorrere del tempo, è un qualcosa che ha dell'irrazionale. Avevo ben impresso nella mente il volto di allora, e quando lo sovrapposi all'immagine che vedevo in quel momento, ebbi un involontario moto di stupore purtroppo perfettamente visibile.

- Giulio!-

Rimasi fermo davanti alla porta, senza parlare.

- Entra, su che fai lì fermo. Vieni qua, fatti vedere bene. – 
Mi fece segno di accomodarmi su un divanetto posto a fianco del letto.

- Sono cambiata un po', vero? – 

La voce flebile, i movimenti impercettibili, il viso contratto, i radi capelli bianchi testimoniavano un’estrema sofferenza. 
Il suo corpo sotto le coperte quasi non si notava. Solo un lento, appena percettibile movimento delle coltri consentiva di rilevare la presenza del respiro.
 Cercai di non farle capire quanto il suo aspetto mi avesse colpito ma non riuscii a trattenere le lacrime. Mi sedetti in silenzio. 


Si stava emozionando, e non le faceva certo bene. Mi chinai su di lei, le sfiorai appena la fronte. I suoi occhi, una volta di un blu profondo, erano diventati grigi. Non avevano, però, perso la dolcezza di allora. Mi domandai come avesse potuto scrivere la lettera. 

- Sai Giulio, quest’ultimo mese sono tanto peggiorata. Temevo di
      non 
rivederti più. Ma ora sei qui! –
Il suo tremore 
aumentò di intensità.

- Senta, non le fa bene affaticarsi così. Se vuole riposarsi un poco,  
      io 
posso aspettare senza alcun problema. -

- Ora mi passa, ora mi passa. La gioia che mi doni nel rivederti,  
      figlio mio, supera ogni dolore. – 
Finì la frase in un sussurro, voltò la testa di lato, e sembrò addormentarsi. 
Mi girai verso la finestra, che dava direttamente sulla via. Le persiane erano accostate, ma lasciavano intravedere l'esterno. Di fronte vi era una chiesa, e proprio in quel momento stavano uscendo delle persone in gruppo, segno che la funzione religiosa era terminata.
- Giulio! –
Mi sentii chiamare debolmente. 

- Vai verso quel comò, per favore. Apri il primo cassetto e prendi la scatola verde. - 
La presi e richiudendo il cassetto sentii la maestra Ada chiedermi di avvicinarmi.
 
- Giulio, non riuscirei a dirti ciò che devo, mi mancano le forze e  
      credo anche il coraggio. Lì ... – 
Disse, indicando con un dito la scatola che tenevo in mano. 
- Lì c'è tutto. Apri questa scatola prima possibile, e cerca di  
      perdonarmi, se puoi. - 

Finì le parole con un filo di voce, e vidi delle lacrime addensarsi in quegli occhi liquidi.
 Reclinò la testa di lato, e senza dire più niente abbassò le palpebre, rimanendo immobile. 
Io aspettai qualche minuto, poi decisi di cercare un infermiere. Uscii nel corridoio, dove vidi un uomo in camice e lo chiamai. Questi entrò e dopo aver verificato le condizioni della maestra, ritornò nel corridoio facendomi cenno di seguirlo. 

 - Buongiorno, sono il dottor Santini. Lei è un parente della signora?-
Chiese guardandomi con uno sguardo severo misto a curiosità.
- No, sono un vecchio alunno. – 
 
-    Mi sembrava di non averla mai vista. La signora sta male, 
      molto male. Per oggi non le posso permetterle di continuare la  
      visita, ha 
assoluto bisogno di riposo. Ritorni nei prossimi giorni. 
      Arrivederci.-

Rimasi immobile sul corridoio, la scatola consegnatami dalla maestra Ada nelle mani. La guardavo intimorito sapendo che dentro c'era il mio passato e, forse, anche il mio futuro. Ritornai a casa.

 

”Caro Giulio,
se stai leggendo questa lettera vuol dire che non sto molto bene. Mi dispiace, mi dispiace tanto. Quanto tempo ho aspettato per poterti parlare, quante volte ho preso un foglio per scriverti per poi buttarlo sempre nel cestino. Ho tante cose da dirti, una vita intera da raccontare e così poco tempo per farlo!
 Ti ricordi, Giulio, quando a Natale vi chiedevo di scrivere un pensiero, una poesia, e poi l'ultimo giorno di scuola, prima delle vacanze, leggevate le vostre rime di fronte a tutti gli altri? Ti ricordi che tu, così timido, ti vergognavi tanto che non riuscivi a leggere? Ti ricordi, allora, che io ti prendevo per le mani, ti sorridevo, e poi ti sussurravo in un orecchio la canzone che ti piaceva tanto? ... Amore, ritorna, le colline sono in fiore... allora spariva la tua timidezza e cominciavi a leggere le tue poesie.
 Quante volte, in seguito, dopo che me ne sono andata, dopo che ti ho lasciato, ho cantato quella canzone, per rievocare con il pensiero il tuo volto, la tua voce, il tuo profumo. 
Lo sai, Giulio, che i bambini profumano? Tu sapevi di farina, di pane appena sfornato, a volte di miele. Eri un bambino molto appetitoso. 
Perché, Giulio, perché ho lasciato che ti portassero via da me, perché non ho lottato, perché? 
Mi dicevo che era per il tuo bene, che per il momento andava bene così, che poi in seguito saresti tornato con me. Sapevo che non era vero, che stavo mentendo. Si può perdonare chiunque, tranne se stessi.
 Mi sono accontentata, Giulio; quando ho capito che non volevano più che io ti vedessi, quando mi minacciarono di rinchiudermi, privandomi per sempre delle tue notizie, ho accettato la loro misera elemosina. Ti ricordi, Giulio, quando ti portavano in estate, in quel paesino di montagna, dove giocavi con i tuoi amici tutto il giorno, vi rincorrevate tra i ruderi della torre, andavate in cerca di immaginari tesori? Io ero lì, stavo in una casa che dava sulla piazzetta, e da dietro la finestra potevo guardarti e in qualche maniera eri ancora un po' mio. 
Poi sei cresciuto, da adolescente non hai più seguito i grandi, ed io non ti ho più visto. Mi sono dovuta accontentare di nuovo, di qualche tua fotografia.
 Non voglio annoiarti, non con le mie tristi vicende. 
Sono riuscita comunque ad avere costantemente tue notizie, anche quando decisero che non dovevo più interessarmi di te. 
Sono passati così tanti anni dall'ultima volta che ho potuto abbracciarti, che spero prima di morire possa almeno una volta, anche una sola, rivederti, poterti toccare, sentire la tua voce. 
Mi sono chiesta costantemente, da quando mi hanno portato via da te, quando questo sarebbe successo.
- Quando sarà il tempo - mi sono sempre risposta.
 Ora il tempo si è compiuto. Non so, se mentre leggi questa lettera sarò già morta, o se invece mi sarà concesso di vederti un'ultima volta. 
Avrei tanto da raccontarti, ma non posso continuare, non ci riesco, il dolore provocato dalla malattia è niente confrontato con quello causato costantemente dal ricordo del tuo distacco.
 Perché, Giulio, siamo così cattivi? Volevo solo starti vicino, volevo solo amarti,  volevo solo vivere con te, per te. 
Addio, Giulio, ho diviso la mia carne in due, per darti la vita. Quando potremo di nuovo essere uniti, come è stato, come sarà.
 Addio, figlio mio amatissimo. Ti rivedrò, un giorno, quando sarà il tempo.”
Mi alzai in piedi, avvicinandomi alla finestra. La chiesa si stava lentamente svuotando delle poche persone che seguivano il feretro di Ada Carlini, i lenti rintocchi della campana accompagnavano quel triste corteo. 
Ritornai nell'ospizio dopo aver letto la lettera contenuta nella scatola verde, ma non in tempo per vedere la maestra Ada ancora in vita. Mi sorpresi che continuassi a pensare a lei come alla mia maestra.
 Nella scatola insieme alla lettera trovai un gran numero di mie vecchie fotografie, il mio certificato di nascita e le pratiche della mia adozione. 
La verità sorprende sempre. Spesso fa male. Non partecipai al funerale perché volevo ricordare la maestra Ada viva. La mia maestra. L’unica persona che mi ha veramente amato. Mia madre. 

Un'infermiera era entrata in camera per segnalarmi  l’ora di chiusura. Durante il viaggio di ritorno verso casa, lungo quella strada che doveva costituire una separazione tra me e il mio presente e che invece si rivelò un vallo insuperabile con il mio passato, avevo in mente una sola cosa. Appena rientrato a casa spensi le luci e nell'oscurità mi sdraiai sul divano.

 
 
Il disco bianco lentamente continua ad avvicinarsi.
Sto raggiungendo la superficie. 

Ecco, sono quasi arrivato, oramai la luce è abbagliante, ma io non ho nessuna difficoltà a tenere gli occhi aperti.
 
Quelle voci fastidiose, che mi chiamavano per farmi tornare indietro sono cessate, finalmente.
 
Lasciatemi stare. 

C'è tanta pace, qui.
 
 

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