Scritto da © nunzio campanelli - Dom, 23/09/2012 - 23:33
Il paesaggio che scorreva intorno a me era un’unica arsa pietraia che si estendeva fin dove l’occhio umano poteva vedere. Terra bruciata dal sole, polverizzata dal vento e dimenticata dagli uomini. In mezzo a quell’arido territorio, faceva mostra di sé un’autostrada in costruzione che solitaria si allungava rettilinea per chilometri, generandosi all’improvviso dal centro di quel deserto e andando a terminare la sua corsa contro una parete rocciosa.
Mentre stavo arrancando lungo i tornanti di una strada sempre più simile a una mulattiera sentii il motore della mia auto cominciare ad emettere un soffio asmatico che di lì a poco mi costrinse a fermarmi al lato della strada. La verifica al motore confermò i miei timori. Non sarei riuscito a far ripartire la macchina da solo.
Era quasi mezzogiorno, immerso in quella distesa di sassi che faceva da specchio al sole, il telefonino muto e sordo e il paese più vicino chissà a quanti chilometri, m’incamminai verso una destinazione sconosciuta. Avevo un appuntamento alle sei al quale non potevo, anzi non dovevo mancare. Lo stato aveva stanziato altri soldi per proseguire la costruzione di quell’autostrada, e alcuni subappalti m’interessavano. Diciamo pure che erano fondamentali per la mia impresa. Dovevo vedermi con alcune persone che potevano aiutarmi. Nella tasca dei miei pantaloni una busta piena di banconote che, magari, avrebbe potuto aiutare loro. Dopo aver percorso un paio di chilometri, la camicia avvolta sulla testa in cerca di un po’ di riparo dal sole, e una striscia di sudore che seguiva i miei passi, dove la strada bianca si avvicinava all’autostrada quasi a lambirla, procedendo poi appaiata ad essa per qualche decina di metri, vidi un ragazzo di circa diciott’anni che se ne stava seduto in disparte, godendo della poca ombra generata da alcuni alti muri in cemento armato.
Lo chiamai. La mia voce rimbalzò tra le pietre calcinate prima di perdersi nel nulla. Dopo un secondo e un terzo tentativo, mi arrampicai su un costone a lato e percorsi un breve tragitto in mezzo alle rocce. Quando lo raggiunsi avevo voglia di prenderlo a schiaffi, ma le forze rimaste mi servivano per respirare. La lingua faticava a staccarsi dal palato. Mentre tentavo di farmi capire, mi offrì una lattina di coca cola che aveva preso da una borsa. Bevvi avidamente quel liquido caldo che sapeva di caramella appiccicosa.
“Potevi rispondere almeno! Vedi che non ce la faccio più. Comunque, grazie per la bibita.”
Dedicò alcuni secondi del suo sguardo alla contemplazione della mia figura, ma si capiva che con la mente continuava a vagare su territori a lui solo riservati. Accennò un saluto con la testa.
“ Ho la macchina ferma a due chilometri circa. Mi serve un meccanico.”
Il mio breve discorso non sembrava averlo interessato più di tanto.
“Urgente! Capito?”
Non è che non mi ascoltava. È che forse non mi vedeva nemmeno. Pensai che stesse facendo una scena per cercare di cavarmi un po’ di soldi.
“Quanto vuoi? Avanti, non ho più tempo.”
Tirai fuori alcune banconote che agitai nell’aria. Un gesto da stronzi. Mi pentii subito e le rimisi in tasca.
“No, no, che fai. Dai qua.”
Prese il denaro che gli stavo porgendo con un’incertezza che prima non avevo avuto, e senza contarlo ma con l’aria di chi ne conosceva l’ammontare, lo mise nella tasca posteriore dei pantaloni e mi guardò fisso negli occhi. Mi stava studiando. Io invece mi stavo incazzando per bene.
“Allora, vogliamo andare?”
“Dove?”
“E no, a che gioco dico io… guarda che non mi faccio prendere per il…”
“Il paese più vicino è a cinque chilometri da qui, e l’ultimo meccanico ha chiuso due anni fa. Tu dai per scontate troppe cose, ma non sei a casa tua.”
“I soldi però li hai presi, eh?”
“Sei tu che li hai tirati fuori. Uno che tratta il denaro così, o non gli è costato niente, o non ne capisce il valore. In ogni caso mi servono. Adesso risparmia il fiato e portami dalla tua macchina.”
“Perché?”
“Perché, perché. Perché due non fa tre.”
Finito il suo discorso, s’incamminò verso la direzione dai cui ero venuto.
“Te la faccio ripartire io la tua macchina.”
Rimasi un po’ in silenzio, facendo qualche passo sulla superficie polverosa della strada, guardando meglio quel paesaggio la cui durezza cominciava ad affascinarmi. Il sole, il fischio del vento, le ombre che sulle colline di pietra disegnavano mille forme. Poi in alto, in mezzo al cielo, il grido solitario di un’aquila avvertiva, sfacciato, le prede che lei era a caccia. Quel deserto era pieno di vita.
Lo raggiunsi. Quel giro lo comandava lui.
“Senti , io non volevo…”
“Che macchina hai? “
Non c’era verso di poter fare un discorso che seguisse una qualche regola. Mi adeguai.
“Dove abiti?”
“A casa mia.”
Stavo sprecando fiato e nervi.
Percorremmo il resto del tragitto in silenzio. Raggiungemmo poco dopo il luogo dove avevo lasciato l’auto. Che non c’era più. Stranamente la cosa non m’impressionava più di tanto. Forse me lo aspettavo. Mi voltai verso il mio accompagnatore. Non c’era nemmeno lui. Rassegnato mi misi a sedere su una pietra rotondeggiante che emergeva dalla scarsa vegetazione. Ormai l’appuntamento era andato, e con lui gli appalti. Dal quel posto si vedeva l’intera vallata, compreso lo sfregio di quell’inutile autostrada. Finora avevo considerato quell’ammasso di cemento e catrame come un enorme bancomat, dal quale prelevare il denaro occorrente. Ora che la osservavo nella sua inutile imponenza, mi rendevo conto di quanta arroganza si circonda, a volte, l’uomo per giustificare le proprie scelte. Stupito di aver consentito ai miei pensieri di giungere fino a quel punto, la percezione di un leggero movimento dove il nastro stradale s’interrompeva per poi riprendere dopo una quindicina di metri catturò la mia attenzione. C’era un’automobile in mezzo alla strada. Era la mia, ne ero sicuro. Senza pensarci, cominciai a correre in quella direzione.
Percorsi per più di un chilometro la vecchia strada di polvere, fino a raggiungere il punto in cui la careggiata autostradale si divideva in due monconi. Risalii la ripida scarpata di terra fino al piano della nuova strada, dove vidi la macchina. Era vuota, salii a bordo. Le chiavi erano inutili, avevano strappato i cavi elettrici dell’accensione per metterla in moto. Come un ladro, avvicinai i fili tra loro per fare contatto. Il rombo del motore fu l’unica nota positiva di quella giornata. Infilai la retromarcia per fare manovra e andarmene. Solo allora mi accorsi delle banconote appoggiate sul sedile del passeggero. Infine lo vidi. Stava seduto sul ciglio stradale, nel preciso punto in cui s’interrompeva. Le sue gambe perse nel vuoto. Sotto, a vari metri di profondità, passava la vecchia strada. Al suo fianco una giovane donna, seduta anche lei. Probabilmente avevano la stessa età. Sapevo che avrei dovuto allontanarmi e di fretta, ma in quella storia c’erano troppe cose fuori posto. Pensavo fosse un galoppino al servizio di qualcuno del paese, ma mi sbagliavo. E non era nemmeno un ladro d’auto. Senza capire che cosa mi spinse a farlo, mi avvicinai e mi misi a sedere al suo fianco. Gli porsi il denaro che aveva lasciato sul sedile.
“Questo è tuo.”
“Non sono riuscito a farlo.” Rispose senza nemmeno guardare le banconote.
“Che cosa?”
“Il salto.”
“Che salto?”
“Non c’è niente da fare. Uno il coraggio non se lo può dare. Glielo dovevo, l’avevo promesso…”
Parlava e camminava. Camminava e parlava. Se ne stava andando.
“Che salto?” gridai, ma non mi ascoltava più.
Una voce femminile al mio fianco cominciò a parlare.
“Lo lasci andare. Oggi, sa…due anni fa, in questo giorno, è morto suo padre.”
Restai in silenzio. La ragazza continuava a parlare.
“Senta, lei con questa storia non c’entra niente, le abbiamo anche rubato troppo tempo. Lei deve andare, no? Credo abbia un appuntamento alle sei, se corre ce la può fare. Scusi per la macchina. Se vuole, quando ha finito può portarla al garage centrale. È di mio fratello, lui la può sistemare.”
Accennò un lieve sorriso poi s’incamminò anche lei verso la stessa direzione dell’altro. Io continuavo a restare in silenzio, immobile. Poi un tremito alla mano anticipò di poco la mia reazione.
“Perché lui… sì quello laggiù, insomma chi è, il tuo ragazzo no? Dicevo, perché voleva fare il salto, come lo chiamava lui. Voleva lanciarsi nel vuoto con la mia macchina, no? Mi sbaglio? Perché?”
La ragazza si fermò, girandosi a guardarmi, fissandomi con occhi diversi da prima. Occhi di chi non faceva più domande. Occhi di donna.
“Lei vuole sapere troppe cose. C’è capitato per caso, in questa storia, e ne sta uscendo con pochi danni, mi sembra. Si accontenti, mi creda.”
“È per via dell’appuntamento, vero? Di questo mio appuntamento del quale tutti sanno, a quanto pare. Ma se non sono io, sarà un altro, no? Qualcuno dovrà pur finirla questa strada.”
Quegli occhi continuarono a fissarmi ancora per un po’, poi addolcendosi in un lieve sorriso se ne andarono.
Salii in macchina, misi in moto unendo i fili e percorsi un tratto di quella strada finché non raggiunsi uno svincolo di servizio che mi permise di ritornare sulla vecchia strada bianca. L’orologio segnava le sei in punto. Tornai a transitare nel punto in cui l’autostrada, sopraelevandosi, si divideva in due tronconi. In mezzo passava quella specie di mulattiera che stavo percorrendo. Su uno dei contrafforti in cemento che avrebbe dovuto sorreggere il cavalcavia mancante notai un riquadro bianco in marmo con dei fiori. Una lapide. Senza alcuna ragione, come del resto tutte le vicende di quella giornata, decisi di fermarmi per leggere l’iscrizione.
“Salvatore Palmieri nato il diciotto dicembre millenovecento sessantadue, morto il diciassette maggio duemila dieci. Il figlio.”
“Oggi, sa…due anni fa, in questo giorno, è morto suo padre.” Queste parole risuonavano nella mia testa. Oggi era il diciassette maggio duemila dodici.
“Scusi, lo conosceva?”
Quelle parole pronunciate da una voce sconosciuta riuscirono a riportarmi alla realtà. Mi girai e vidi che provenivano da un furgone attrezzato per la vendita di cibarie e bevande, parcheggiato sulla banchina opposta. A pronunciarle era stato un uomo in canottiera indaffarato alla sistemazione del suo bar ambulante.
“Come dice, scusi?” gli risposi avvicinandomi.
“No, chiedevo se era suo amico, parente.”
“No, mi sono fermato solo per curiosità. Lei sa dirmi qualcosa, magari chi era, perché quella lapide qui.”
“E come no, sono qui per servirla. Magari, se intanto vuole qualcosa…”
“Sì, certo, come no, mi scusi.” Ordinai un panino già pronto e un bicchiere di acqua tonica.
“L’ingegnere…”
“Scusi, l’ingegnere chi?”
“E che fa, già m’interrompe? Si faccia servire, la prego. L’ingegner Palmieri, quello della lapide, dirigeva i lavori pubblici, su al comune, sa? Gli avevano affidato il controllo della costruzione dell’autostrada, come si dice, la super…”
“La supervisione!”
“Ecco, quella cosa lì, come dice lei. Fu una disgrazia, sa? Avevano già steso l’asfalto, poi la notte prima, non si sa perché, tolsero il ponte, il cavalcavia, e lui con la sua macchina c’è finito dentro. È caduto proprio in mezzo alla strada, qui davanti.”
“Tolsero il ponte? E perché?”
“Eh, signore caro, lei vuole sapere il perché. Che domande mi fa, eh? Magari lo chieda al sindaco e tutti gli assessori, che fra poco arriveranno.”
“Arriveranno? Per far cosa?”
“Ma scusi, lei ingenuo è? Ma come per cosa, per la commemorazione, no? Il sindaco si farà il suo bel discorso, gli assessori pure, la gente è contenta così, no? Ci sarà anche il nuovo ingegnere. Sa, come si dice, morto il papa, se ne fa un altro.”
“Forse ha ragione lei, sono ingenuo. Ma, insomma, lei mi dice che hanno tolto il ponte la notte, e la mattina Palmieri con la sua auto passava qui sopra ed è precipitato qui, su questa strada. Vuol dire che l’hanno levato apposta, il ponte, per simulare un incidente?”
“Io non voglio dire niente. Questo l’ha detto lei.”
“Sì, sì, chiaro, l’ho detto io. Buongiorno.”
Dopo aver bevuto l’ultimo sorso dal bicchiere, mi girai per andarmene.
“Senta lei, ha dimenticato il panino.”
“No, guardi, non ho fame. Lo tenga pure.”
“Venga qua, dove va, magari le interessa sapere del salto.”
Quella parola pronunciata così, buttata lì come per caso, m’immobilizzò.
“Quale salto?”
“Ma come, non mi dirà che non lo sa, quello che vuole fare il suo amico. Sì, quel ragazzo con cui parlava poco fa, qui sopra. L’ho vista, sa? Corre voce che il figlio dell’ingegner Palmieri abbia minacciato di saltare con una macchina sul sindaco e gli assessori durante la commemorazione. Sì, il figlio! Insomma, il suo amico. Voci di popolo, comunque. Senza fondamento. Ma lei, signor mio, viene qui e si mette a parlare con quell’esaltato. Proprio oggi, poi, che aveva quel suo appuntamento.”
Quelle parole precipitarono su di me con lo stesso effetto di una valanga. Corsi verso la macchina, riuscii a metterla in moto con le mie mani tremanti, e sollevando polvere e sassi abbandonai quel posto, seguito dalla risata assordante del venditore in canottiera.
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