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Nulla dies sine linea (*)

 
I
Perché si noti l’equilibrio, il funambolo
sceglie di mettere un filo esile tra il dirupo celeste
e il crinale della notte.
Gli dà gioia il piede retto dalla sera nella birra
bevuta in doppio malto scuro con farfalle di schiuma
e rumori dallo stomaco; l’orlo su cui si regge
la bocca inesplosa è una parodia calma, il verso
dei tetti non più a coprire le mandrie umane
piuttosto una finestra eseguita a tuttocielo.
 
II
Ma dire che la tristezza è un mulo caparbio e infaticabile
non rende giustizia a quel gusto intimo
che introduce nel panorama
una luna eminente, cardinalizia. Ufficiosamente
rossa, rigorosa nel grigio invisibile, senza fenomeni,
rispettosa all’incrocio fra atmosfere
idilliache e parabrezza.
 
III
Il contesto di tante corolle chiuse, notturne,
non impedisce che il funambolo
regoli il passo sulla leggerezza delle lucciole.
Ogni residuo chiarore mostra una comica
del ginocchio inciampato nella tibia
dello spazio profondo. Eppure resta in bilico
nella contumelia tra l’uomo e il suo prodotto.
Parla all’uno di asfodeli e violacciocche ed all’altro
degli spiccioli della pensione: entrambi
convengono sugli sconti.
 
IV
Non a caso gli oggetti, le loro sensibilità
emarginate, mai tenute in conto, denunciano
la mancata verifica di una patria, di un sintomo
consanguineo tra distanti. Noi lo sappiamo:
emigrano le pietre da un punto all’altro del crinale,
della pianura, persino del cosmo.
 
V
Lasciano le loro radici i semi, come uccelli esperti
di navigazione. Tutto ciò che pare fermo, in realtà
si muove, ma non lo dà a vedere, non ci informa.
 
VI
Uomini e donne, più bambini sagaci e sognanti,
occupano il letto di un fiume che, con questi affluenti,
più che finire in mare, collabora con lingue assetate,
quasi secche, inascoltate.
 
VII
Nella città eterna, eternamente sanno che finirà.
Sanno che l’eterno adesso è già passato.
Nessuna risposta immediata è più veloce
del futuro mai venuto.
 
VIII
Sopra la luna il respiro muore, sotto la luna
le capre campano – o era la panca?
Quindi, che ci sia o meno un posto a sedere
la posizione è tutto: di qui o di là
le vicissitudini ammettono che in via eccezionale
la guerra
permette si contino i proiettili per l’attinenza
con le vittime, ma prima rilancia le alleanze
esibendo paure nei corridoi dei parlamenti.
 
IX
In qualsiasi avventura il funambolo insinui la sua figura
l'eleganza dell'ombra insanguina le fanciulle
ferma i mestrui, intacca le doglie e per le stalle
il fieno conturba le puledre; infine, le distende.
Vengono alla luce i rapsodi controversi, gechi argentei
in mimetica luminosa, fanalini di coda, lucciole - delle quali
abbiamo letto -, tutti gli esseri che esprimono
almeno una luce, non importa come.
 
X
Ma l’acrobata è un ladro inguaribile,
nella gabbia dei meli si dibatte
come una stagione indefinita, comunque
lucido, benché nebbie e grandine
lo tartassino, o gli rendano brutto il muso.
 
XI
Però è bello. Con quella accortezza di cammino
dall’uno all’altro capo, la sua corda di parole.
Sospeso verso verticale, meridiano e fanale.
Intriso di mobilità prova la capriola, vibra
quasi il tendine perda
stabilità, l’ombra filiforme
sottoposta al turbine
e al pendolo del corpo.
 
XII
Il funambolo inarca la nuca
costringe a calibrare gli occhi:
naso nel vapore, mani per cirri, capelli a radice
disegna un cielo come ostia e lo celebra;
sacrale il suo andirivieni come un pope dell’aria
nel veto che la distanza impone
dalle cianfrusaglie
dalle opere, dal miele delle mele.
 
XIII
Lui è sul ponte fantastico. Lui è il ponte.
Immaginate la navata della cattedrale che è in lui.
L’ala mistica che conduce l’avambraccio
all’ara delle dita. Là dove l’asta simula la stadera,
tiene in bilico la coscienza della luna
nel petto premuroso della notte.
Quella rossa che vi dissi. Quella
elegiaca dell’ingegnoso hidalgo quixote, anch’egli
acrobata della terra secca. Quella che
illude i mulini e s’insedia nei cavalieri.
 
XIV
Più che luna, esantema dell’universo: credo osservi
per conto del piccolo sole che la illumina di sghimbescio.
Il funambolo ha gioia dall’occhio rosso.
Lui che conosce i cristalli delle fonti
fino a farli passare nella pelle, lui che nel bronzo
apre le ciglia alle statue insicure. Mette un pane
nei palmi di gesso e grattugia milioni di briciole
che trattano la notte come un brodo.
Lui e la seta, più di una volta, portano il ritorno
a oriente.
 
XV
Il funambolo si raggomitola sul filo di una voce
infantile perché meglio riesce la maturità
a sembrare inconsapevole se è dotata di una nota
acuta, come in una melannurca l’acidità si stempera
nel bollore e come gli ho visto fare nella piazza
sul basso grado della vittoria che spezza
le catene e scrive agli eroi quanto poco serva
tenere la parola lontano dalle lame.
 
XVI
Mi aspetterei che facesse i baffi
ai marmi con un permanent marker
o alle bitte attraccare i porti perché
non si distinguano i partenti dalle laviche del vecchio molo.
Un molo con le stesse assurde dinamiche di fazzoletti
che oggi pare d’essere il secolo ventesimo a genova,
belfast, napoli, le havre, palermo, e domineiddio stesso
li accoglieva nelle americhe;
io, lui, voi, i morti legati con una gassa d’amante
negli affondamenti.
 
XVII
Ma il funambolo è sui colmi mentre esprimono
i dormienti il primo convoglio di sonni e passano
sul binario delle labbra le incontestabili supremazie
del respiro calmo, con l’eco di fianco, e tutto il vapore
che può generare un viaggio segreto, espresso
dal fanciullo che ognuno può liberare.
 
XVIII
Perciò io chiedo: dove siede l’artista, dove si riposa?
Quale due coppie di appoggi lo sorreggono?
La luna è i due in alto; sulla terra, un corpo
di donna e una sdraio frontemare. Sinuose entrambe.
Il satellite verace cucina la sua minestra di
sfondi argentati con le polveri mistiche e piccanti,
l’artista, il folle sulla cima della notte,
si nutre di movenze caute e non cavalca.
Si sente un altro.
 
XIX
A questo punto, la nuca tenta di fuorviare
l’abbattimento. Propone di fronte il muro
della veglia, si apre il panorama e un valico
notturno rasserena sui fogli.
 
XX
Il sì appeso al mento, il no alla barriera dei capelli
penduli sul collo come sbarre. Il vento lo circonda
e libera la pelle nello stesso punto in cui la vertebra
esprime la fiocina della schiena.
 
XXI
Il funambolo riposa nella corolla d’aria.
E’ nitida (lei). E’ pulito (lui). E’ gioia (la loro).
Ha lasciato l’applauso e le grida alle sagome
vaganti dei motori. I motori che partono per primi.
I motori con geometrie di rombi.
 
XXII
Data l’ora, la vertebra annienta
il pallore e si distende morbido il buio
come si racconta. Forse esce il vento
con l’armamentario dei cristiani nella questua
e la casa torna sicura, dice che la corda cònnola.
 
(continua)
 
(*) d'improvviso e proditorio a Gabriele Menghi, da: Il funambolo e la luna - Ghiannis Ritsos.
 

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