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Le nubi partivano....

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Le nubi partivano
dal punto dove s’aspetta il sole.
A raggiera s’allargavano, rosa e cenere.
E un po’ di bianco. Solo un filino, attorno.
Cornice all’inconsistenza.
 
E l’aria s’era smossa.
Un ventaglio di piume di struzzo. Plaf, plaf,
s’un cielo turchese slavato e piatto.
Come una pietra di fiume.
Piatto come la noia.
Come una notte senza sogni. Né carezze.
Vuoto d’idee. E di pentimenti.
 
In attesa di nuove scritture.
Il cielo. La sua purezza.
L’infinite possibilità del vuoto.
 
Guardavo e aspettavo.
Magari un segno. O una nuova prospettiva,
su in alto. O altrove.
 
Non era questione d’illudermi.
Io, mai. Ormai, mai.
Aspettavo. E basta. Che accadesse il possibile.
 
Intanto già mi bastava quello sfavillio ferito di rosso,
già mi bastava quell’epifania, nell’aria.
Il sole ancora dietro i colli e il cielo pronto.
In trepidazione. Noi.
Buono che non si veda ancora il sole, pensavo.
Poter aspettare ancora, solo questo.
 
Che poi il sole non è che mi piaccia tanto. Non che lo ami.
(tutto così lampante, svelato. Senza ripensamenti)
Il cielo azzurro, sì, quello sì.
Quell’inspiegabile, trasognato, inarrivabile azzurro, quello sì.
O la luna, ecco. La luna.
Come una ferita di luce. O un’esca.
Che tutto magari può succedere. Dì di sì. Aspettare.
Sospensione. Galleggiamento.
 
E il dolore che passa, tanto. E la paura.
Aspettare che giri la carta,
o si calmi il mare
o cresca il giovane faggio, giù in giardino, senza ammalarsi.
O crescano i capelli,
(ti fidi di te? Certe volte me lo chiedo, la sera. O la notte).
 
Aspettare che s’asciughino i panni e le lacrime
O si spengano tutte le luci.
Anche quelle lontane.
 
Aspettare che arrivi la vecchiaia
calma, colma e dolente di ricordi lievi, lievi.
 
Come un Pierrot che parla alla luna d’amore
E lei l’ascolta e sorride,
sapendo che
niente cambia. Poi, mai, veramente.
(by poetella)
 

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