Scritto da © Franco Pucci - Lun, 28/02/2011 - 21:03
Quella notte dormii male. Un sonno agitato, convulso, abitato da presenze, sogni, incubi. Mi giravo e rigiravo nel letto ansiosamente, come in attesa di un evento ineludibile. Nel dormiveglia contavo le ore scandite dalla luce fredda del led della radiosveglia sul comodino. Assurdo, pensai, alla mia età vivere queste sensazioni di timore latente, paura dell’ignoto. Improvvisa una luce rischiarò la stanza, o almeno così a me apparve, senza minimamente incidere nel sonno di chi mi stava accanto, mi catturò e sprofondai in una sorta di coma profondo, sospeso in un limbo tra ragione e follia, consapevolmente inconsapevole dell’incubo che stavo vivendo. Eppure mi piaceva, un sottile senso di libidine interiore, quasi fisica, mi attirava verso la scoperta di quella strana forma di malia che mi attanagliava. Ombre danzanti dapprima indistinte, viepiù precise col tempo pullulavano la mia mente impedendone un percorso logico. Con uno sforzo, che a me apparve immane, distolsi il mio sguardo dalla rappresentazione e mi vidi. Sì, mi vidi. Disteso su un piano di marmo. Nudo, immobile, gli occhi chiusi, dormiente. Vittima sacrificale in attesa di un verdetto che sancisse finalmente la fine della dicotomia che da sempre aveva caratterizzato la mia vita. Perché assistere alla fine di una parte di me stesso? E poi, chi aveva organizzato questa messa in scena? Perché? Scientemente mi ribellai, utilizzando una vecchia tecnica: svegliandomi. Il led azzurrino della radio sveglia disegnava ombre rassicuranti sul muro della stanza. Il respiro regolare accanto a me rassicurava il mio ansimare calmandolo. Solo un particolare, un piccolo particolare stonava in questo quadretto rassicurante: in un angolo della stanza, per terra, un cappello da strega stagliava irridente un’ombra incerta sul muro.
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