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Noi che faremo l'approdo

  1. Il risveglio
 
Oltre il fintoazzurro, il fiato scompare. Ed è l’unica
cosa certa per attingere al respiro inusuale.
Il navigatore ricorre al coma indotto, al sangue frenato
per la distanza dall’ultima casa alla prossima luce. Diventa
un cercatore astioso, un pellegrino che ottempera il sogno.
 
Io no. Sono Arthur, ago in questa bolla di metallo
che rotola sul tappeto nero di continuo spiegato
a sua volta nell’incontinenza astrale.
Guardo dove si perde l’orizzonte cosmico della Flight.
Timono per l’approdo ai continenti intermedi, ben oltre
l’orbita esterna a Kepler-11.
 
Andiamo a cercare il vello di Dio, la sua pelle smisurata
e bollente. Se c’è, Egli è il seminatore, come dice Shabine:
se non ci fosse, sarebbe più vero, trasparente e di ghiaccio.
 
Gli uomini da sempre collocano le cose a misure incerte,
purché sicure. La misura è una ipotesi potente: non si usa
più farina, ma regge il posto del pane nelle dispense.
Quindi la spiga c’è non per il seme, ma per lo spazio
che occupa nella credenza.
 
Qualsiasi fantasma ora si presentasse agli occhi
avrebbe un nome d'evento nel futuro della Terra.
In realtà, il vestito scuro dell’universo è una forza bruta
più piccola della meraviglia che suscita. Impedisce che la sillaba
dilati il pensiero finché non è vecchio e già successo.
 
Prima che Shabine mi cogliesse dall’eterno ritorno,
tre eoni relativi erano scomparsi dalla storia esterna,  
come il cuore fisico che chiede agli occhi
la sensazione assoluta delle stelle. Eh, già! Le stelle
che da vicino sono pure frecce di energia
inarcate da inguaribili tempeste, sembrano gioielli
inestimabili in una cassaforte aperta, troppo distante.
Una sull’altra, rivelano la montagna segreta
della prima miniera da cui fu estratto questo mistero.
 

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