Scritto da © Anser - Mer, 12/01/2011 - 23:53
La stanza era buia. Solo il monitor del computer la riempiva d’un azzurro metallico, innaturale. Nel silenzio si sentivano le dita che violentavano la tastiera, i “clic” di plastica erano l’unico suono. Lei stava seduta alla scrivania, gli occhi fissi sul video. Le pupille nere, dilatate erano circondate da un’iride di un colore chiaro, slavato, spento.
La luce illuminava impietosamente le mani, vecchie, la pelle raggrinzita da rughe, macchiata, e un filo di sporco era raccolto sotto le unghie che avevano ancora tracce di uno smalto rosso. Attorno, la casa. Buia. Nessun suono, oltre il ticchettio incessante della tastiera e della ventola del computer. Un odore penetrante di abbandono, di cose dimenticate sovrastava la puzza che saliva dal bidone della spazzatura, colmo da tempo, dal lavandino pieno di piatti sporchi, dal letto disfatto, con le lenzuola che non venivano cambiate da mesi ed il cuscino era pieno di capelli grigi. Le imposte erano chiuse, come pure le finestre. Non entrava un filo d’aria.
Niente poteva entrare in quella casa. Fuori la primavera scaldava i cortili, le gemme scoppiavano di vita, ma in quella casa il tempo si era fermato.
«Dove sei?, dove sei?» disse smettendo di scrivere. Nessuno rispose a quella domanda. Il cigolio di un mobile, lo squittio di un topo erano gli unici suoni percepibili.
Rimase un attimo in silenzio, ad aspettare una risposta. Poi, scuotendo la testa, riprese a premere i tasti, veloce, nervosa. Le parole sullo schermo si attorcigliavano, si confondevano, si mescolavano. Quasi si fondevano, per riassumere in una sola parola tutto il flusso dei pensieri.
«Ti vedo, lo so che ci sei, ti vedo», e smise nuovamente di scrivere. Si era fatta attenta. Come a cogliere ogni minima vibrazione dell’aria, ogni minimo rumore, ogni scricchiolio.
«Ah ah ah ah ah...» iniziò a ridere. Nervosa.
«Sei lì dietro, ti vedo l’ombra!». Fissava la penombra azzurrina, ed il viso era sorridente, quasi ringiovanito di colpo. Indicò il monitor con un dito, quasi a sottolineare le parole scritte.
«Ecco, vedi? Ho scritto di quella volta che mi hai rincorso in riva al fiume, ricordi?» fece una pausa.
«Era autunno, forse. No, era estate. Si, mi ricordo il sole alto, il vento. Mi ricordo tutto. Ma tu non ne vuoi parlare, vero? Ti fa ancora male ricordare. Ma perché?» continuò, alzandosi dalla sedia.
Le sue labbra iniziarono un canto. Una ninna-nanna antica. “Ninna oh, ninna oh, il mio bimbo a chi lo do? Lo daremo all’orso nero, se lo mangia per intero….” e mimava il gesto di cullare un bambino, dondolandosi in mezzo alla stanza. E intanto guardava nel buio. I suoi occhi cercavano qualcosa.
«Lo so che ci sei, lo so…» ripeteva ora.
“…lo daremo alla befana, se lo tiene una settimana…” continuò a cantare, con la voce bassa, quasi un sussurro. Si muoveva per la stanza zoppicando leggermente, sforzandosi di osservare ogni angolo, ogni cosa.
«Ho scritto per te, sai? Scrivo tutti i giorni per te!» riprese a parlare. Poi lo vide. Era sulla poltrona. Nudo. Con le gambe allungate, le braccia lungo il corpo. Il membro eretto, che la guardava fisso. Silenzioso, immobile. Semplicemente la guardava.
«Eccoti!», esclamò. Ora la sua voce pareva quella di una bambina. Ridacchiava nervosa, con lo stesso riso di quando, con sua madre, andava a prendere il gelato, di pomeriggio. Impaziente e contenta, di passeggiare con lei.
«Perché ce l’hai duro? Ti piaccio? Mi vuoi?» le chiese. Lui non rispose. La guardava con gli occhi fissi, non diceva nulla. Si intravedeva appena il profilo del volto, nella luce azzurrognola, e la forma del corpo.
Corse al computer. Le sue mani scrivevano nervose, e sottolineava le parole con dei risolini. Scrisse alcune frasi, tutte in maiuscolo. Poi, lentamente, iniziò a spogliarsi, in mezzo alla stanza. Buttava i vestiti ai suoi piedi, e lo guardava. Sulla poltrona, immobile, che la fissava. Poi, si sedette sul pavimento, freddo. Un brivido la colse, improvviso. Poi, allargò le gambe, lentamente, rivolta alla poltrona.
«La vuoi? Ti piace?» e iniziò a masturbarsi, lentamente. Lui era immobile. Fermo, sulla poltrona. Non diceva una parola. E nella penombra sembrava di vedere il suo sguardo.«Mi guardi, vero? Mi stai guardando?» riprese a parlargli. E si masturbava più velocemente, ansimando.
«Guardami!» urlò. Poi si fermò. Le mancava il fiato, si sentiva la testa leggera, come se volasse sul soffitto.
No, non era un soffitto, era il cielo, si, il cielo pieno di stelle, poteva sentire il rumore del vento, vedeva le cime degli alberi, sentiva lo sciacquio delle onde sulla riva del fiume.
«Amore…amore…mi ha portata sul fiume, il nostro fiume….». Si alzò, e andò verso di lui. Allargò le gambe sul suo corpo disteso sulla poltrona, lasciò che il membro di lui entrasse e iniziò a muovere il bacino, ritmicamente. Sentiva il suo fiato sempre più veloce, sentiva la sua testa leggera, sentiva il vento, le onde, vedeva le foglie.
«Ti amo, ti ho sempre amato….» ripeteva, sempre più piano, abbandonandosi su quel corpo che la possedeva. Poi il silenzio. Tutto taceva nella stanza. All’improvviso si sentì il suono di una chiamata di messenger. Ma lei non si mosse. Non gliene importava più niente.
Il commissario era perplesso. Leggeva i suoi appunti, e chissà cosa avrebbero scritto i giornalisti. Chissà. Era stanco, molto stanco. Di tutto quello che aveva visto nella sua vita, di tutte le morti, di tutto.
«Voglio parlare con il medico legale» disse ad un suo collega li vicino. Ed entrò nella casa .
Il medico legale guardava la scena. Era abituato a vedere la morte in mille varianti. Ma questa non le era ancora capitata. Stava fotografando quel corpo nudo di donna, distesa su un manichino, con il membro di plastica che la penetrava, nella fissità della morte.
«Allora, mi può già dire qualcosa?». La voce del commissario lo distolse dai suoi pensieri.
«Ah, è lei… direi che è morta una decina di giorni fa, circa. Probabilmente un infarto, o un ictus. E’ morta mentre…»
«Lo vedo bene cosa stava facendo» rispose asciutto. Non riusciva a staccare lo sguardo da quella scena, soprattutto dal volto di lei. Pareva sorridesse. Ma era senz’altro un’impressione.
«Quindi possiamo escludere una morte violenta?» chiese.
«Si, direi di si. Dopo l’autopsia ne avrò la certezza».
Il commissario non rispose. Guardò un’ultima volta il cadavere, la stanza. Ed il computer ancora acceso. Poi, si accese una sigaretta.
«Poveretta…», mormorò, respirando il fumo, quasi ad averne sollievo.
(Ogni riferimento a fatti accaduti o a persone realmente esistenti, è puramente casuale)
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