Scritto da © Nievdinessuno - Mar, 08/04/2014 - 21:37
Allento il cappio, non sostiene più
il peso della foglia
sopra l'estremità
di una giugulare infetta,
sono ricaduto
sullo stesso inciampo
che mi fece martire
o sentenza di un corpo
immobile,
l'impossibile inquadratura
di un solfeggio tra le rime
quando i piedi distaccano la terra.
Qui, lascio immagini,
accanto la premurosa fretta
di premere l'eternità
sulle palpebre inette
e poi crollare addosso ai ricordi
che avevo nascosto dall'inverno.
Così la tristezza compie un attorno
tra le mani, per colpire fin dentro
il colore del midollo,
e rimango solo, sull'ubiquità
di un mondo parallelo
a chiedermi venia
e se questo è un amore per pochi
o di molti, l'eco di una fine.
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