Scritto da © Hjeronimus - Gio, 19/07/2012 - 14:09
Monet.
Monet era un pittore. Non appena ne pronunci il nome, immediatamente se ne associa un altro: Impressionismo. Un nome che mi suona un po’ “accessorio”, forzoso, e credo che a lui, a Monet, suonasse come un insulto (d’altronde la storia è nota: una sua marina venne descritta come “impressionista” appunto, in senso denigratorio, da un critico). Quanto a me, l’Impressionismo mi è pressoché sfuggente e indifferente. E né mi pare, né lo tengo, più su di altro, per esempio dei nostri coevi Macchiaioli, o della pittura tedesca.
Ma qui si tratta di Monet e di ciò che amava sopra ogni cosa: la pittura. La pittura in sé, il racconto naturalistico dei colori, “romanzato” dal verbo del “tocco”, della pennellata. A ciò era anche dovuto l’equivoco “impressionista”: al racconto lirico del “tocco”, malinteso dalla ingenuità interpretativa dei ligi osservanti della rappresentazione, ossia dei fedeli del realismo illusorio e muffito della mimesis. Monet non poteva dipingere opere fedeli come fotografie. Avrebbe tradito il suo sentimento più autentico, quell’amore per la pittura che, sotto la patina antichista della mimesi, si sarebbe corrotto e poi estinto. Lui voleva invece che si vedesse ciò che era dipinto, non che si celasse sotto una icastica perfezione.
Dalle prime prove prospettiche del Masaccio, giù sino alla lucente verosimiglianza quasi epifanica dei Fiamminghi, di Van Der Weyden, di Van Eyck, il discorso della mimesis era già compiuto da secoli, e Caravaggio, agli albori del ‘600, aveva incominciato a coniugare un “maniera” del realismo che liberava il dipingere dall’obbligo della mimesis. Realistica non era la visione “celeste” dei Fiamminghi, o magari di Beato Angelico, ma quella “negra”, ossia buia, tragica, sporca, di chi apriva gli occhi sull’umana miseria. E i guizzi di luce che vacillano nell’ombra e discoprono tale condizione, sono lampi di colore, audaci affondi di pennello che denunciano un ulteriore realismo: si dichiarano difatti apertamente per la loro verità: sono pennellate, non luci. Così Caravaggio aveva generato un nuovo codice estetico, aprendo una breccia nella percezione della mimesis e della stessa realtà, dal cui grembo si sarebbe palesato il percorso ed il viatico del dipingere, lungo tre secoli, fino a Monet.
E quando Monet impugna il pennello c’è oramai un nuovo ospite inatteso nella casa della rappresentazione: la fotografia.
“Daguerre è il messia.” Scriveva qualche anno avanti Baudelaire. “…e l’immonda società si precipita a contemplare…la propria triviale immagine”. Proprio questo non voleva Monet. La pittura non doveva compiacere il soggetto. La bellezza doveva scaturire dell’in sé del racconto cromatico. La poetica doveva restar recintata nel lirico tocco dell’artista, pari alla mano di Chopin che, in quegli stessi anni, scendeva soave sui tasti del pianoforte. Per lui era quello l’unico e solo realismo possibile, quello ottico, quello della percezione vibrante della luce e del colore secondo natura, una natura amata e coccolata dall’artista che curava personalmente il suo giardino a Giverny. Ma quelli erano anni di luce, non per niente Parigi era la “ville lumière”, la prima grande metropoli illuminata dalla tecnologia. Il realismo del Caravaggio era quello buio e ruvido della Roma cinque-seicentesca, ve la figurate?. Grandiosa e superba, turpe e pezzente, affossata nelle tenebre del Barocco. Il realismo di Monet si innestava sull’alba della tecnologia, permeata di una luce fin lì ignota alle metropoli. Il suo occhio s’impregna di scienza e si persuade che sia quello il giusto vedere: l’arte è ottica, oftalmologia, direbbero i dotti. Non a caso i Pointillistes, dopo di lui, si convinceranno che la retina coglie la visione come il “retinato” dei designer.
Tuttavia, il fulcro di questa perlustrazione della vie moderne ai suoi esordi, non sta né al realismo immaginario, né all’impressionismo critico: è la poetica la chiave di volta dell’opera di Monet. Perché è qui la grandezza: Monet volge in poetica la percezione e il racconto della mutazione tecnologica del paesaggio,. pur restando nella sfera dell’adorazione della natura. Anzi, è proprio questa adorazione a rivelarci la metamorfosi dei rapporti tra l’uomo e il mondo. La natura domata e non già più ostile, è piegata al dominio tecnico umano e, per opposizione, il rapporto dell’uomo ad essa si converte in tenerezza e nostalgia, come di chi guarda al Paradiso perduto.
Così, sia il paesaggio naturale, oramai ridisegnato da mano umana, che quello della vie moderne massime parigino, si volgono in epica, come se un Omero si mettesse a salmodiare sia il mondo nuovo nascente, che l’Eden perduto e meraviglioso che lo precedette. E questo canto epico è un inno al vedere: le sue note, le sue frasi, sono brani di luce, guizzi di colore che riassumono, saettando rapidi e inopinati, la bellezza e la malinconia di ciò che cambia, di un mondo che è alba e tramonto insieme e che appare agli occhi del testimone-artista come un catalogo, o uno scrigno, di gioie da preservare dalla ineluttabile decadenza che li attende.
In Terrazza sul mare a Sainte Adresse Monet ci rappresenta ciò che ci dice il titolo. E ci mostra la terrazza in primo piano, ove dei personaggi, per altro parenti dell’artista, son colti a godersi il fresco e il panorama a mare della balconata fiorita. Con colpi sicuri e senza remore minuziose coglie con finezza lo spirito del luogo e del tempo. Il quadrato di natura ordinata dall’uomo, accoglie i personaggi quieti e contemplanti davanti a un secondo piano marino che, come una striscia, attraversa il quadro orizzontalmente: nell’acqua, fatta di sprazzi di colore puro, galleggia sul davanti la barca di un pescatore e, sul fondo, una scia di navi a vapore, indici del vicino porto commerciale di Le Havre. Una terza striscia di colore è il cielo calmo e vagamente fumigante dalle navi, sul quale sciabordano due bandiere, testimoni della brezza e della precarietà, del moto in cui l’insieme è catturato. C’è quindi l’amata natura, ma ricomposta nell’ordine “intellettuale” umano; c’è il passato, la tradizione, comprovata dal pescatore “antico” subito dietro; e c’è il “nuovo che avanza”, sotto forma della “rivoluzione industriale” delle navi commerciali. Tutto è reso veloce dal modo del racconto, quel tocco, quella fuga di luce e colore che “scappano” da un piano all’altro della rappresentazione. Con un epilogo che è contemporaneamente elegiaco e malinconico, che, mentre decanta l’ode del “qui e ora”, innalza all’unisono un nostalgico adieu a tutto ciò che sta per finire, come dicesse: questa immagine è l’ultima del suo genere.
In Navi alla fonda sulla Senna a Rouen la “fantasia cromatica” s’impenna in un tenue e festoso guazzabuglio di colori, che sono via via paesaggio, edifici, navi, acque e alberi e cielo. La prua del vascello in primo piano confonde la propria tonalità con quella del sottostante riflesso che l’acqua ripropone ondeggiando. Questo riflesso zigzaga in verticale sulla tela contraddicendo il piatto moto orizzontale dell’acqua. Questa astrazione fatta di pennellate si raccorda alla memoria di ciò che è visto realisticamente- come a dire che il realismo è rappresentare la memoria di ciò che i sensi ci han consegnato, e non la loro diretta percezione. In questo modo la percezione è trascesa nella storia e ciò che appare qui e ora è già consegnato alla sublime epopea della rimembranza.
Monet era un pittore. Non appena ne pronunci il nome, immediatamente se ne associa un altro: Impressionismo. Un nome che mi suona un po’ “accessorio”, forzoso, e credo che a lui, a Monet, suonasse come un insulto (d’altronde la storia è nota: una sua marina venne descritta come “impressionista” appunto, in senso denigratorio, da un critico). Quanto a me, l’Impressionismo mi è pressoché sfuggente e indifferente. E né mi pare, né lo tengo, più su di altro, per esempio dei nostri coevi Macchiaioli, o della pittura tedesca.
Ma qui si tratta di Monet e di ciò che amava sopra ogni cosa: la pittura. La pittura in sé, il racconto naturalistico dei colori, “romanzato” dal verbo del “tocco”, della pennellata. A ciò era anche dovuto l’equivoco “impressionista”: al racconto lirico del “tocco”, malinteso dalla ingenuità interpretativa dei ligi osservanti della rappresentazione, ossia dei fedeli del realismo illusorio e muffito della mimesis. Monet non poteva dipingere opere fedeli come fotografie. Avrebbe tradito il suo sentimento più autentico, quell’amore per la pittura che, sotto la patina antichista della mimesi, si sarebbe corrotto e poi estinto. Lui voleva invece che si vedesse ciò che era dipinto, non che si celasse sotto una icastica perfezione.
Dalle prime prove prospettiche del Masaccio, giù sino alla lucente verosimiglianza quasi epifanica dei Fiamminghi, di Van Der Weyden, di Van Eyck, il discorso della mimesis era già compiuto da secoli, e Caravaggio, agli albori del ‘600, aveva incominciato a coniugare un “maniera” del realismo che liberava il dipingere dall’obbligo della mimesis. Realistica non era la visione “celeste” dei Fiamminghi, o magari di Beato Angelico, ma quella “negra”, ossia buia, tragica, sporca, di chi apriva gli occhi sull’umana miseria. E i guizzi di luce che vacillano nell’ombra e discoprono tale condizione, sono lampi di colore, audaci affondi di pennello che denunciano un ulteriore realismo: si dichiarano difatti apertamente per la loro verità: sono pennellate, non luci. Così Caravaggio aveva generato un nuovo codice estetico, aprendo una breccia nella percezione della mimesis e della stessa realtà, dal cui grembo si sarebbe palesato il percorso ed il viatico del dipingere, lungo tre secoli, fino a Monet.
E quando Monet impugna il pennello c’è oramai un nuovo ospite inatteso nella casa della rappresentazione: la fotografia.
“Daguerre è il messia.” Scriveva qualche anno avanti Baudelaire. “…e l’immonda società si precipita a contemplare…la propria triviale immagine”. Proprio questo non voleva Monet. La pittura non doveva compiacere il soggetto. La bellezza doveva scaturire dell’in sé del racconto cromatico. La poetica doveva restar recintata nel lirico tocco dell’artista, pari alla mano di Chopin che, in quegli stessi anni, scendeva soave sui tasti del pianoforte. Per lui era quello l’unico e solo realismo possibile, quello ottico, quello della percezione vibrante della luce e del colore secondo natura, una natura amata e coccolata dall’artista che curava personalmente il suo giardino a Giverny. Ma quelli erano anni di luce, non per niente Parigi era la “ville lumière”, la prima grande metropoli illuminata dalla tecnologia. Il realismo del Caravaggio era quello buio e ruvido della Roma cinque-seicentesca, ve la figurate?. Grandiosa e superba, turpe e pezzente, affossata nelle tenebre del Barocco. Il realismo di Monet si innestava sull’alba della tecnologia, permeata di una luce fin lì ignota alle metropoli. Il suo occhio s’impregna di scienza e si persuade che sia quello il giusto vedere: l’arte è ottica, oftalmologia, direbbero i dotti. Non a caso i Pointillistes, dopo di lui, si convinceranno che la retina coglie la visione come il “retinato” dei designer.
Tuttavia, il fulcro di questa perlustrazione della vie moderne ai suoi esordi, non sta né al realismo immaginario, né all’impressionismo critico: è la poetica la chiave di volta dell’opera di Monet. Perché è qui la grandezza: Monet volge in poetica la percezione e il racconto della mutazione tecnologica del paesaggio,. pur restando nella sfera dell’adorazione della natura. Anzi, è proprio questa adorazione a rivelarci la metamorfosi dei rapporti tra l’uomo e il mondo. La natura domata e non già più ostile, è piegata al dominio tecnico umano e, per opposizione, il rapporto dell’uomo ad essa si converte in tenerezza e nostalgia, come di chi guarda al Paradiso perduto.
Così, sia il paesaggio naturale, oramai ridisegnato da mano umana, che quello della vie moderne massime parigino, si volgono in epica, come se un Omero si mettesse a salmodiare sia il mondo nuovo nascente, che l’Eden perduto e meraviglioso che lo precedette. E questo canto epico è un inno al vedere: le sue note, le sue frasi, sono brani di luce, guizzi di colore che riassumono, saettando rapidi e inopinati, la bellezza e la malinconia di ciò che cambia, di un mondo che è alba e tramonto insieme e che appare agli occhi del testimone-artista come un catalogo, o uno scrigno, di gioie da preservare dalla ineluttabile decadenza che li attende.
In Terrazza sul mare a Sainte Adresse Monet ci rappresenta ciò che ci dice il titolo. E ci mostra la terrazza in primo piano, ove dei personaggi, per altro parenti dell’artista, son colti a godersi il fresco e il panorama a mare della balconata fiorita. Con colpi sicuri e senza remore minuziose coglie con finezza lo spirito del luogo e del tempo. Il quadrato di natura ordinata dall’uomo, accoglie i personaggi quieti e contemplanti davanti a un secondo piano marino che, come una striscia, attraversa il quadro orizzontalmente: nell’acqua, fatta di sprazzi di colore puro, galleggia sul davanti la barca di un pescatore e, sul fondo, una scia di navi a vapore, indici del vicino porto commerciale di Le Havre. Una terza striscia di colore è il cielo calmo e vagamente fumigante dalle navi, sul quale sciabordano due bandiere, testimoni della brezza e della precarietà, del moto in cui l’insieme è catturato. C’è quindi l’amata natura, ma ricomposta nell’ordine “intellettuale” umano; c’è il passato, la tradizione, comprovata dal pescatore “antico” subito dietro; e c’è il “nuovo che avanza”, sotto forma della “rivoluzione industriale” delle navi commerciali. Tutto è reso veloce dal modo del racconto, quel tocco, quella fuga di luce e colore che “scappano” da un piano all’altro della rappresentazione. Con un epilogo che è contemporaneamente elegiaco e malinconico, che, mentre decanta l’ode del “qui e ora”, innalza all’unisono un nostalgico adieu a tutto ciò che sta per finire, come dicesse: questa immagine è l’ultima del suo genere.
In Navi alla fonda sulla Senna a Rouen la “fantasia cromatica” s’impenna in un tenue e festoso guazzabuglio di colori, che sono via via paesaggio, edifici, navi, acque e alberi e cielo. La prua del vascello in primo piano confonde la propria tonalità con quella del sottostante riflesso che l’acqua ripropone ondeggiando. Questo riflesso zigzaga in verticale sulla tela contraddicendo il piatto moto orizzontale dell’acqua. Questa astrazione fatta di pennellate si raccorda alla memoria di ciò che è visto realisticamente- come a dire che il realismo è rappresentare la memoria di ciò che i sensi ci han consegnato, e non la loro diretta percezione. In questo modo la percezione è trascesa nella storia e ciò che appare qui e ora è già consegnato alla sublime epopea della rimembranza.
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