Sono nato in un vecchio caseggiato ad un piano nel villaggio di Miràn sur Mer.
Credo anch’io che, dell’origine di questo nome chiaramente francofono, sia stato fatto un mito, come da più parti si sostiene, che lo stesso abbia sede, e si sostanzi, in un archetipo; non sono però assolutamente d’accordo sul tacerla tale origine, o continuare a nasconderla.
A mio parere sarebbe meglio parlarne, farla risalire, che continuare a sprofondarla nell’inconscio.
E’ comunque solo perché vi sono stato tirato per i lembi della giacca dai rappresentanti politici del Movimento: Zanza, Cica, Gheapope e Squasi, che mi sono deciso a tirar fuori una documentata ricerca fatta tanto tempo addietro, donata, da un anonimo benefattore, alla Biblioteca comunale e lì immeritatamente rimasta sepolta fra la polvere.
Posso però dirvi che, nonostante quel che successe per quell’anonimo, o forse proprio a tale motivo, in città, me compreso, circola una gran bella gioventù e che, ogni volta che vi torno, il cuore e gli occhi mi si riempiono di una non celata festosità.
Nelle chiese, da vedere, c'è un Tiepolo, ci sono affreschi di Giovanni del Min, sculture del Torretto, maestro del Canova, e pale di Paolo Fiammingo.
Al tempo cui mi riferisco, già inserite nel Registro del censo a significarne la ricchezza, nel territorio esistevano inoltre 36 ville di signorotti veneti, le quali sono ancora visitabili.
La cittadina è lambita da un corto fiume che anticamente aveva nome Muson, sulle cui rive crebbe, fino a non molti pochi anni orsono, con palazzi e chiese, lo splendore di quella economia.
Prima che a qualcuno venisse in mente di saccheggiarlo con un canale, il Taglio, il suo letto si riempiva delle piene primaverili che originavano dalla grande pianura retrostante: acque torbide e limose come lo sguardo delle donne del luogo, crespe, ingannevoli, ma fascinose, rendevano allora agli occhi sognanti dei giovani maschi, evidente come, tuffarvisi, avrebbe potuto significare, se non morte certa, un’avventura di cui certamente sarebbe rimasto il segno nell’età a venire.
Ora invece, da noi abitanti il fiume è chiamato affettuosamente Muson Vecio, e Stronco.
Dello stesso Muson, il più grande Poeta italiano per quanto possa servire il mio parere, nel momento della maggior ispirazione scrisse:
- Di là da la riviera /de la Brenta, le terre ove serpeggia
la Tergola e 'l Muson fremendo ondeggia.
Tanto per dirvi l'imbrocco, da parte di costui, del periglio appena sopra esposto; di quanto già si trovasse in linea con il mio pensiero.
Ciò che mi è ancora oscuro attirando il mio sdegno, è questo: perché Miràn sur Mer, bellissimo nome esotico, dagli avi di Gheapope e Squasi, meno da quelli di Cica, (Zanza è immigrato dalle Romagne e quindi il suo operato va valutato anche tenendo conto di questo) sia stato stroncato, non dico eliso, ma obbrobriosamente privato, in nome di un affrettato pragmatismo politico, di quella sua recondita, fantasiosa semantica, riducendolo, allora per ora, ad un vergognoso e misero Miràn
Io però, al solo fine di arrivare a scoprire le mie radici, non demordo. Io mi sento in petto il dovere sacrosanto di scoperchiare la lastra di ipocrisia imperante, non solo a mio vantaggio e per quello della Verità, ma perché i miei figli, e i miei amici più intimi, ugualmente lo meritano.
Secondariamente, per dare loro modo di dare una risposta su quanto vanno da troppo tempo ripetendo: <Taglio, papà, ma tu, come c… parli?
Così mi sono deciso a dare alle stampe questo inglorioso pezzo. Col vostro acume, sarete voi lettori a giudicare, e ad esprimervi su questo: perché io e molti dei miei amici ancora continuiamo a parlare come quelli di Parma, con la erre moscia, pur abitando ad alcune centinaia di chilometri di distanza da quella bellissima e gloriosa città.
Sarei potuto partire citando la famosissima e fondamentale “Guerra della Secchia”, un accenno dei cui incommensurabili versi ho appena sopra richiamato, o da più lontano. Per intenderci, volendo fare una disamina appena decente, vi troverete d’accordo con me che tutta l'Italia, e non solo la beneamata terra di cui vi parlo, è stata di volta in volta squassata da continue devastazioni, massicciamente da quando l'Impero romano d'Occidente ha iniziato a calare le le braghe di fronte a chiunque, Goti, Ostrogoti, Visigoti che dir si voglia, arrivasse, con rispetto parlando.
Qui però, ho preferito focalizzarmi sulla particolarità che all'epoca interessò l'area di riferimento, perché la stessa potrebbe, il condizionale è d’obbligo, coinvolgere il mio e vostro onore.
Ed eccoli, i fatti da cui il dilemma scaturisce.
In una sera imprecisata del maggio 1797, (ma sentite quant’è più poetico tra il 13 e il 27 del Floreale, anno V) arrivando i francesi del generale Bonaparte, anzi ancor prima che le truppe dell’Armèe d’Italie fossero alle porte di Venezia, quella popolazione, già in forte scagazzo per la sorte che sarebbe toccata alla Serenissima, ma ancor più per il ricordo di come, mesi prima, dalla stessa armata era stata sedata la rivoluzione dei cugini veronesi, in tutta fretta deliberò di cambiarsi di nome.
Da Miràn o Mirà, determinazione dialettale di un paese votato preminentemente al radicchio, (sarebbe da approfondirne la derivazione etimologica) sconosciuto ai più, per ingraziarsi i conquistatori, pensa che ti ripensa, tale popolazione pensò bene di trasformare il medesimo in un nome più amicale all’orecchio del vincitore.
Da Miràn o Mirà, quindi, a Miràn sur Mer.
Conclusero così, gli abitanti, in quel giorno memorabile, che anche se il mare era a venti chilometri, chilometro più chilometro meno, questa loro decisione avrebbe potuto contribuire a confondere la soldataglia d’oltralpe facendo passare il villaggio non tanto per un vecchio alleato della Repubblica di San Marco, bensì quale una dormiente enclave cisalpina immeritatamente abbandonata dalla madrepatria circa un millennio prima, per quantità di forze e non per animo soccombente a quei tristi commercianti veneziani strafottenti e viziosi, ma ora immensamente desiderosa di tornarle tra le braccia.
Così, non essendo ancora terminata l'assemblea avente all’ordine del giorno:-radicchio ed asparago nell’era della rivoluzione, - varie ed eventuali, fu fatta venire l'unica sartina del paese per conferirle ufficialmente l'incarico di approntare, con foglie di granturco macerate nelle acque dello storico fiume, un cuscino, e ricamarvi sù, per tutta la notte se occorresse, a sua fantasia, lo stemma della loro valorosissima città. “ Facci una croce”, si sentì gridare da più parti, (d’altra parte, una vecchia ricordò all’assise:- vuoi che quei fessi di francesi non abbiano mai visto una chiesa?) onde poggiarvi poi le chiavi della Rocca ormai del tutto diroccata. Un gesto simbolico se si vuole, ma pregnante, che ricordasse alle truppazze già vicine da che parte stavano quegli onesti e semplici lavoratori del settore agroalimentare, i quali nulla avevano a spartire, come stile di vita e visione del mondo, con la stirpe di marinaiazzi più sù che ancora pensavano di contendere a quei probi rivoluzionari il dominio sulla regione.
La lavoratrice autonoma, più furba che santa, avendo in casa alcuni rimasugli di stoffa rossa d’una sottana e di un corpetto argentato di una mugnaia del luogo, dei quali avrebbe voluto, stante la lite sorta fra le due, liberarsi al più presto, (la mugnaia aveva trovato da ridire sull’esosità del prezzo praticatole in quanto non tenente conto dei ritagli) con una felice sintesi del contenzioso in atto, esclamò allora:- fate fare a me, e ricordate, lo faccio per la mia città.
Era donna estremamente pia, ma di scienza comune. Sul punto non poté fare altro che decidersi per uno scudo rosso con in mezzo una bella croce d'argento. Fatto ciò, avanzandole altri due piccoli ritaglio, prima che la candela avesse a spegnersi aggiunse, nel quarto superiore di destra dello stemma, (a sinistra per chi guarda) una seconda piccola croce sempre d'argento.
All’alba, dicendosi soddisfatta della propria opera, andò a dormire.
Questa, per quanto a me risulta, è la genesi dello stemma comunale miranese, e non quella, favolistica, di una presunta partecipazione alle Crociate.
La stessa arma, così come descritta, a perenne vanto della popolazione sunnominata, sarebbe poi stata graziosamente donata dall’Imperatore d'Austria a Miràn, circa cinquant'anni dopo, nel 1844, una volta ristabiliti gli equilibri territoriali messi in forse da quel mattacchione di un Corso durante la ratifica del preliminare di pace di Leoben, (avvenuta l’undici Floreale, anno V) ovvero, il 30 aprile 1797.
Fu infatti nel 1844, durante una colazione a letto, che al vecchio Ferdinando I venne puntualmente riferita tutta l’intera storia da due giovani, pimpanti cameriere, ed egli ne rise tanto da far richiamare indietro l’ Emissario che già stava sulla carrozza per il Veneto, per farla ascoltare anche a questi.
“Aspetta un giorno o due, e per una volta fatti venire un’idea brillante, coglionazzo”. Pare abbia detto Ferdinando all’Emissario che stava partendo portando seco come regalo uno stemma raffigurante un Valzer lento.
Per farlo meglio calare nell’atmosfera e non perderlo di vista, sembra che gli permettesse addirittura di passare le due notti d’attesa nella camera a fianco, condividendo con lui, seppur a malincuore, le cure mattutine delle due belle inservienti che affettuosamente chiamava “Wurstel A e Wurstel B”.
Avvenne in tal modo che all’allegra Wurstel A venisse l’idea di aggiungere, in capo alla croce grande la corona, e, sotto la stessa, e sui due lati, tante foglioline quasi si trattasse di un cesto di lumache.
Fuori dalle divagazioni, e tornando ai fatti contingenti, a nessuno di quell’ assemblea, tanto meno alla sartina, era venuta in mente l'araldica, e forse nemmeno la conoscevano essendo per lo più agricoltori e non soldati. E si erano guardati bene di partecipare alla medesima i signorotti del Brenta, che all’occasione avrebbero potuto dare una mano, non volendosi mischiare in affari non loro. (tutto deve cambiare perché nulla cambi e non ci si morde tra cani)
Fatto sta che invece l'araldica civica italiana i capitani del futuro Imperatore francese la conoscevano bene, e sapevano anche che la croce era tipica delle città guelfe. A nulla valse poi che Milano, una delle prime in Italia ad aderire agli ideali della Rivoluzione, fosse anch’essa una città guelfa e campeggiasse nel suo scudo una bella croce rossa.
Qui il mistero si infittisce. C’erano, a capo di quella soldataglia, dei sostenitori monarchici? Gente che lavorava sott’acqua per un ritorno del re ed avrebbe preferito il giglio?
Non lo sapremo mai. Io posso solo raccontare i fatti, quel che successe.
Il pomeriggio seguente, verso l'imbrunire, il comandante della compagnia dei granatieri Adolphe CipCiop De Sgragnagnac, compagnia che per prima era discesa verso quei campi venendo dalla Laguna veneta, dopo aver fatto pericolosamente risuonare l'assito del ponte sul fiume Muson Vecchio sotto i minacciosi stivali neri dei suoi 99 giganti ed essersi presentato con due ufficiali a fianco alti non meno di lui al centro della piazza mercato del lunedì dove lo attendeva il capo della municipalità insieme al figlio sedicenne, al quale il padre timoroso per la sua sorte aveva fatto indossare braghe corte al ginocchio e strette ai fianchi per mostrare al nemico quanto fossero inermi e pacifici tutti gli abitanti, ed essendo che un avo di Adolphe aveva attivamente partecipato alla guerra della Lega di Cambrai sotto il vessillo imperiale, ed era stato uno dei più convinti assertori dell'utilità militare delle devastazioni e punizioni che ne erano seguite, essendo, altresì, che ancora tutte quelle storie tramandate di generazione in generazione sia che i progenitori avessero subito quella serie interminabile di violenze, stupri, eccidi, sia che le avessero fatte, fatto sta dicevo, che le stesse essendo più che mai vive nella coscienza, o nell’inconscio se volete, fissò il suo sguardo sull’inermità offertagli.
Quell'Adolphe, (non risulta da nessun documento filologicamente vagliabile se per pretesto, per vizio, per nascoste aspirazioni o cosa) assunse per oltraggio e vilipendio al Pinguino innamorato, (questa fu la versione ufficiale) il semplice ricamo di due croci sullo scudo così come ricamate dalla sartina, i cui bordi per somma sventura la meschina, più per penuria di conoscenza e tessuti che d'altro, s'era completamente dimenticata di contornare con un chessò di arabesco, di stellato, un che di regale che avrebbe potuto richiamare alla memoria un giglio, glorie terrene, fu preso da tanta "ira" che immediatamente diede ordine alla compagnia ed alla demì- brigade di dragoni al seguito, al grido di Bastia Entro Bastia Fuori, di mettere a ferro e fuoco sia il capoluogo che le località circostanti: Ballò, Campocroce di Miràn, Scaltenigo, Vetrego, Zianigo, fino alle frazioni più sperdute di Noale, Salzano, Martellago, Santa Maria di Sala, Scorzè e Spinea, accompagnando tale grido con un ancor più minaccioso "voilà, e non tralasciate alcuna porta".
Il tenente dei dragoni, di stanza ad un chilometro circa, prima di muoversi, mandò un messaggero a cavallo a chiedere al superiore “degli uomini, cosa ne facciamo?”
Il comandante di quei maschioni, fissando focosamente le carni rosa del figlio del capo del villaggio, gli rimandò indietro lo stesso cavalleggero scrivendo nel retro del medesimo biglietto ”non so tu, io ne ho sottomano uno per niente male, ha un viso tondo e rubizzo, un cappotto liso sui gomiti, un mazzo di palloncini colorati in mano. E' l'ultimo uomo di questa storia".
N.B. Egli avrebbe voluto anche scrivere "Je vous dirai plus tard". Ma lo squadrone già si stava avvicinando a grandi passi, così trasse al volo il fanciullo da terra e con questi, al galoppo, sparì nelle nebbie dei campi, coprendolo con il proprio mantello.
Dicono che questo fu ciò che avvenne quei giorni ed è la causa principale, a mio modestissimo parere, della nostra erre moscia come quelli di Parma, nonché del tradimento sul nome.
Dicono anche che il radicchio variegato o no di Chioggia, bianco o rosso, sia ciò che è rimasto quale impronta dei poveri grembi delle donne di queste contrade, nato nel terriccio di quelle misere capanne, e che ad esse solo se ne debba l’attuale coltivazione intensiva.
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