Scritto da © Max - Mar, 11/09/2012 - 14:24
Sembrava che ridesse. Gli occhi socchiusi a raccogliere la luce che inondava lo scompartimento del vagone. Non che fossero feriti dalla schietta luminosità, solo strizzati per un vezzo che conservava, forse, fin dall’infanzia. Non potevo esserne sicuro, ma anch’io serravo le palpebre alla luce forte del sole quando ero bambino.
I miei occhiali in quel momento mi proteggevano e non potevo separarmene.
Sembrava che ridesse e un dolce sorriso dilatava appena le labbra, senza malizia o un’astuta intenzione. Ripensava, credevo, all’ultimo bacio stampato ancora sulle labbra rosse, alla stretta tra le braccia robuste che la proteggevano nel suo barcollare all’indietro. Leggevo sul suo viso come un libro aperto, scorrevo le parole sussurrate all’orecchio, tra la curva del collo e il flusso castano dei capelli.
Sorridevo, a sua insaputa, del mio fantasticare e scioglievo i nodi della sua riservatezza per sorbire le gocce del sudore su quel labbro imperlato del ricordo di un sospeso piacere. Non potevo staccare lo sguardo dal suo così assorto, ero intento ad osservare ogni piccolo movimento delle ciglia e delle narici, e immaginavo di far scorrere le mani sui suoi fianchi e sulle lunghe gambe snelle.
Mi avrebbe accolto? Sì, se pensava a lui, tesa nell’abbraccio che le toglieva il respiro, memore di quella bocca dalle labbra rudi, del sapore un po’ acre della lingua.
Perché poi acre? Di certo, era un adolescente di quelli che fumavano per accentuare la propria mascolinità. Lei non avrebbe potuto rifiutare quell’alito pesante perché ne sarebbe stata inebriata e si sarebbe sottomessa a quel movimento audace che s’insinuava nella bocca.
Sì, mi avrebbe accolto, dimentica del suo corpo, della volontà di rifiuto, della mollezza delle braccia. E l’avrei baciata, chiedendole ancora di sorridere per dimostrarmi la sua innocenza, per cedermi un po’ di quell’amore che la legava all’altro. Ora l’amavo, io opposto a lei su sedili distanti, e raccoglievo l’ ansito del suo piacere, mentre pronunciavo quel nome che non avrei mai conosciuto.
Non sorrideva più e si era accomodata meglio nel suo posto, ritirandosi in un piccolo vano d’ombra. Non credevo che fossi stato notato da lei e mi convincevo che una bella ragazza dovesse essere irraggiungibile quando era consapevole della sua avvenenza. Eppure la fantasia non aveva confini.
Il treno si arrestò con una frenata brusca. Lei si sollevò e mise la borsa a tracolla sul fianco destro, spingendo indietro la massa dorata dei capelli. Chiedendomi di farla passare, mi regalò un dolce sorriso. Di convenienza.
I miei occhiali in quel momento mi proteggevano e non potevo separarmene.
Sembrava che ridesse e un dolce sorriso dilatava appena le labbra, senza malizia o un’astuta intenzione. Ripensava, credevo, all’ultimo bacio stampato ancora sulle labbra rosse, alla stretta tra le braccia robuste che la proteggevano nel suo barcollare all’indietro. Leggevo sul suo viso come un libro aperto, scorrevo le parole sussurrate all’orecchio, tra la curva del collo e il flusso castano dei capelli.
Sorridevo, a sua insaputa, del mio fantasticare e scioglievo i nodi della sua riservatezza per sorbire le gocce del sudore su quel labbro imperlato del ricordo di un sospeso piacere. Non potevo staccare lo sguardo dal suo così assorto, ero intento ad osservare ogni piccolo movimento delle ciglia e delle narici, e immaginavo di far scorrere le mani sui suoi fianchi e sulle lunghe gambe snelle.
Mi avrebbe accolto? Sì, se pensava a lui, tesa nell’abbraccio che le toglieva il respiro, memore di quella bocca dalle labbra rudi, del sapore un po’ acre della lingua.
Perché poi acre? Di certo, era un adolescente di quelli che fumavano per accentuare la propria mascolinità. Lei non avrebbe potuto rifiutare quell’alito pesante perché ne sarebbe stata inebriata e si sarebbe sottomessa a quel movimento audace che s’insinuava nella bocca.
Sì, mi avrebbe accolto, dimentica del suo corpo, della volontà di rifiuto, della mollezza delle braccia. E l’avrei baciata, chiedendole ancora di sorridere per dimostrarmi la sua innocenza, per cedermi un po’ di quell’amore che la legava all’altro. Ora l’amavo, io opposto a lei su sedili distanti, e raccoglievo l’ ansito del suo piacere, mentre pronunciavo quel nome che non avrei mai conosciuto.
Non sorrideva più e si era accomodata meglio nel suo posto, ritirandosi in un piccolo vano d’ombra. Non credevo che fossi stato notato da lei e mi convincevo che una bella ragazza dovesse essere irraggiungibile quando era consapevole della sua avvenenza. Eppure la fantasia non aveva confini.
Il treno si arrestò con una frenata brusca. Lei si sollevò e mise la borsa a tracolla sul fianco destro, spingendo indietro la massa dorata dei capelli. Chiedendomi di farla passare, mi regalò un dolce sorriso. Di convenienza.
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