Scritto da © Marco valdo - Mar, 20/05/2014 - 10:59
Quando si vuole mettere di traverso, il fato è spietato, ma non spietrato, gli aguzzi spigoli della breccia sgrossata alla meglio, feriscono le estremità che ne vengono a contatto e cedono facendo crollare il castello di carne, il fato è lepido, lapidario, giudice e carnefice, l'essere non ha altre armi per combatterlo, se non il contatto col legno, col ferro, con le parti molli, la singolar tenzone ha la strada già segnata dal fato, che come è noto, si alza sempre mezz'ora prima di tutti. Così Donna Giuveppa e Don Emarildo trovano la coincidenza per la disgrazia, esattamente nello stesso istante, l'alba di un giorno che si presenta ardente, Don Emarildo al ritorno di una notte brava, appena dentro la sua stanza, crolla in ginocchio di fronte alla Madonna del Pilar e si scioglie in un pianto dirotto, piange come un vitello del Dafur, quando intorno è tutto siccitoso e la gallina del domani non è più nel pollaio, affronta con cura la curva che lo porta alla conversione, dal buio alla luce, si spoglia al modo del poverello e libera la sua anima dallo sporco più sporco, vede in controluce la sua vecchia nonnina, che in vita gli inculcava il vangelo con il cuoio della cinta e il metallo della fibia, gli sorride mentre riempe la bacinella di acqua e varecchina, Emarildo ancora piange e si chiude a riccio per la vergogna e anche per il ricordo della fibbia a forma d'aquila, del suo adunco becco.
«Perdoño, perdoño, perdoño»
con la voce rotta e incollata alla meglio, Marildiño rende i suoi peccati a Dio, per tre giorni di fila elenca i dove, i come, i quando e i perché, delle sue vergoñe, lo zittisce un potente manrovescio che anticipa il calvario del perdono, arriva dritto dal supremo, per tramite di Tia Frangista, la poco domestica serva india, che un grande peso ha nell'economia domestica, forse per via degli ottanta chili distribuiti sul suo corpo, specie nelle braccia e nei ferri da stiro che si direbbero in altre occasioni le mani, dorme ora Don Emarildo, il sonno profondo del giusto, emendato dal lordo, la stimmate delle nocche irradia il viso di una luce bluastra.
Al risveglio, la sua vita prenderà la direzione della sacra dimora di Donna Giuveppa, la convicerà con la forza della fede ad accoglierlo, a coronare il resto della loro vita di virtù e preghiera, se l'era ripromesso quella fatidica notte e niente e nessuno l'avrebbe distolto, nessuno tranne il destino cinico e baro, che già gigioneggiava nei suoi domani, ma non prima di aver fatto visita al presente di Donna Giuveppa, che è lo stesso mattino di tre giorni prima, i capelli scompigliano l'ovale delicato del viso, gli occhi non hanno più il pudore del pavimento, puntano il centro di una rovente figura, nuda e attizzata dal mantice del demonio, trova Giuveppa nel librino della sua memoria il corrispondente, il Museo Nacional, molti anni prima, un quadro antico, una figura d'uomo e un enorme, le dita di sua madre negli occhi, un nome prima del buio, Priamo, no, non era Priamo, comunque adesso è là in mezzo alla stanza, che muove il lampadario con le mani sui fianchi, con lo sguardo che toglie le coperte, solleva le vestaglie, Giuveppa ha scelto, sfila dal collo la catenina d'oro con la croce, la chiude nel cassetto insieme ai vangeli, si cerca in tutto il corpo, vuole fare fare cadere tutte le goccie del lampadario, come fossero pioggia o le lacrime degli angioletti innocenti, la stanza trema e scricchiola, la voce che un tempo misurava il rumore delle foglie, disintegra adesso le stoviglie di vetro, le goccie del lampadario sul pavimento, resistono di crepe i vetri della finestra, otto lunghe ore prima dell'umido silenzio. La stanza è piena di una nebbiolina fitta di goccioline appiccicose, le lenzuola grondano in rivoli sulle fughe larghe delle piastrelle di cotto, la figura dell'uomo svapora in una nube rossastra, i mobili di ciliegio pendono sbilenchi e scollati, Giuveppa stesa sul letto, solleva i seni a rapidi intervalli irregolari e promette a Maridiño il suo futuro, entrando in tutti i più intimi dettagli, fino a far cadere dalla parete, di schianto, l'icona di San Gesualdo.
«Perdoño, perdoño, perdoño»
con la voce rotta e incollata alla meglio, Marildiño rende i suoi peccati a Dio, per tre giorni di fila elenca i dove, i come, i quando e i perché, delle sue vergoñe, lo zittisce un potente manrovescio che anticipa il calvario del perdono, arriva dritto dal supremo, per tramite di Tia Frangista, la poco domestica serva india, che un grande peso ha nell'economia domestica, forse per via degli ottanta chili distribuiti sul suo corpo, specie nelle braccia e nei ferri da stiro che si direbbero in altre occasioni le mani, dorme ora Don Emarildo, il sonno profondo del giusto, emendato dal lordo, la stimmate delle nocche irradia il viso di una luce bluastra.
Al risveglio, la sua vita prenderà la direzione della sacra dimora di Donna Giuveppa, la convicerà con la forza della fede ad accoglierlo, a coronare il resto della loro vita di virtù e preghiera, se l'era ripromesso quella fatidica notte e niente e nessuno l'avrebbe distolto, nessuno tranne il destino cinico e baro, che già gigioneggiava nei suoi domani, ma non prima di aver fatto visita al presente di Donna Giuveppa, che è lo stesso mattino di tre giorni prima, i capelli scompigliano l'ovale delicato del viso, gli occhi non hanno più il pudore del pavimento, puntano il centro di una rovente figura, nuda e attizzata dal mantice del demonio, trova Giuveppa nel librino della sua memoria il corrispondente, il Museo Nacional, molti anni prima, un quadro antico, una figura d'uomo e un enorme, le dita di sua madre negli occhi, un nome prima del buio, Priamo, no, non era Priamo, comunque adesso è là in mezzo alla stanza, che muove il lampadario con le mani sui fianchi, con lo sguardo che toglie le coperte, solleva le vestaglie, Giuveppa ha scelto, sfila dal collo la catenina d'oro con la croce, la chiude nel cassetto insieme ai vangeli, si cerca in tutto il corpo, vuole fare fare cadere tutte le goccie del lampadario, come fossero pioggia o le lacrime degli angioletti innocenti, la stanza trema e scricchiola, la voce che un tempo misurava il rumore delle foglie, disintegra adesso le stoviglie di vetro, le goccie del lampadario sul pavimento, resistono di crepe i vetri della finestra, otto lunghe ore prima dell'umido silenzio. La stanza è piena di una nebbiolina fitta di goccioline appiccicose, le lenzuola grondano in rivoli sulle fughe larghe delle piastrelle di cotto, la figura dell'uomo svapora in una nube rossastra, i mobili di ciliegio pendono sbilenchi e scollati, Giuveppa stesa sul letto, solleva i seni a rapidi intervalli irregolari e promette a Maridiño il suo futuro, entrando in tutti i più intimi dettagli, fino a far cadere dalla parete, di schianto, l'icona di San Gesualdo.
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