Scritto da © Marco valdo - Ven, 20/03/2015 - 22:49
La fuga non può essere raccontata in prima persona, quando se ne comincia a parlare diventa un imbroglio, un intruglio, un coniglio, agitato nella prigione del cilindro.
La fuga per sua natura è distanza, il massimo della distanza possibile, il racconto è consonanza, la parola che cerca l'elastico. Capirete quindi l'imbarazzo di Gervando che si trova a spiegare la sua fuga a nessuno, al vuoto davanti a se stesso, un racconto solo pensato, con le gambe levate, anche quelle pensate, da una poltrona in similpelle messa davanti a una scrivania in simil legno.
Quando comincia a pensarci, come se lo dovesse raccontare, prova un imbarazzo adolescenziale, definitivo e irrimediabile.
Resiste, comincia a parlare a se stesso, prova a eliminare il pubblico, l'interlocutore lo chiama coscienza, ma mente, non ha niente da dirsi e non ha coscienza per quel fatto, per quella fuga, che poi altro non è che una rappresentazione didascalica, una evidenza di ciò che è sempre stato.
Gervando è distanza, lo è sempre stato, un buco nero che succhia energia, che non propone evidenze, misurabile solo per l'assenza che produce, questo lui lo sa e non ha bisogno di dirselo.
Quindi sta raccontando a qualcuno, quindi si avvicina.
Ma lui è distanza, il polo che allontana, le sue parole, il suo racconto non sono altro che lettere che si staccano dalla sua attrazione, che colpiscono il caso di un riflesso e non raccontano.
Gervando è diventato una specie di oracolo, per le orecchie che sbattono sulle sue lettere, la sua fuga non esiste altro che per se stesso, cadono parole e sguardi e intenzioni dentro al buco nero, lui smette di raccontare o almeno così crede, se ne rende conto e da un nome diverso alla sua fuga, ma non può dare una forma diversa alla sua distanza, esplode di tutto quello che aveva rubato o meglio, custodito, un lampo, poi di nuovo il buio, questa volta vuoto.
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