Scritto da © Marco valdo - Gio, 22/12/2016 - 20:34
C'è stato un momento che t'ho amato, me lo sono scritto sulla polaroid, ma prima di farlo era tardi, così in quel momento ti odiavo, perché eri così volubile, me lo ricordo, intorno le collinelle si affrascavano delle chiome dei fusti, compresi nella superbia della primavera, c'erano i cirri che pavoneggiavano il cielo e io guardavo vicino e lontano e intanto mi chiedevo, chi calcola la distanza tra un bottone e l'altro delle camiciette?
Più precisamente le tue, che mi ricordano la bella stagione quando si allunga la lettera . Ṿ . Quanto ti ho amato in quell'istante, non me lo ricordo, se non di riflesso, per l'odio della polaroid che illuminava di luce un momento Nō, era al Kagami-no-ma, riflettevi, guardavi altrove, da me, dal luogo, dai fiori rosa di pesco, c'eri tu, solo tu e la . Ṿ .
Come ho potuto amarti, anche se solo per un istante, mi senti nel sensibile della carta lucida, sorridi cattiva, sai come legarmi a te, la cima della lingua attraversa il bordo di galleggiamento delle labbra, tumido è il vocabolo che rimbalza nell'abitacolo, ragnetti su Marte, Davide che giganteggia tra gli occhi a mandorla, con la sua vocetta stentorea e so già come andrà a finire, dove andrà a finire la prospettiva, mi imbrogli con un grandangolo, adesso tutto è relativo, il diverso senso dell'amore, mi informo, ticchetto tasti per conoscere le ultime evoluzioni, le donne hanno perso la coda, ma come in una recente amputazione, la fanno serpenteggiare nei pensieri e ancora se ne può intuir l'idea, mi prospetti il safari, abbruttito di magre figure Masai, le mie magre figure, l'aurora della Canon le imprime nelle code dei primati, nostalgia di antiche pene, che macerate possono tramutarsi in peccati da far perdere la testa, che è appunto quella che mi manca adesso, che mi fai girare come cicciobello.
Ma intendevamo amore, non ricordi, non era una gara a chi marca meglio il territorio, certo sarebbe meglio parlartene, ma questo spariglierebbe le teorie dei poeti, che scrivono le cose che non vanno dette, nemmeno scritte, la tua coda è ora un aspide, un grosso vermicello velenoso e anche lui c'entra con l'amore, infatti affondi i tuoi canini sul mio collo, fino a lasciare il marchio, di un possesso labile, lavabile dal rossetto color prugna, sfrutti tutti i momenti tiepidi del clima e i miei, per averli quando il caldo ci costringerà nel buio di qualche anfratto, pagheremo allora il prezzo per l'ingresso di qualche grotta, mi ricorderai nel chiuso della terra che ti devo una venerazione, che ho scordato con l'ultimo mugugno, le ginocchia sulla pietra, la mia bocca all'inizio della storia, la tua coda sul mio collo, ritorno, mi convinco, anche se in quel mancato momento, ero proprio sicuro di amare te. Ma come prova c'è solo un diverso istante, brillante di odio.
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