Odoacre stravedeva per Certosina Bianca Invernizzi, adorava tutto di lei, in modo particolare la sua pelle, quando con il dito lasciava un leggero solco su quel candore, per vederlo scomparire subito dopo, ne restava incantato, scordava in quel momento l'essere, lei lo sapeva naturalmente e restava immobile a guardare il suo bambino giocare, con gli occhi che ridevano, i suoi.
Odoacre sudava sette camicie per pagarsi il detersivo per lavarle, con gli straordinari l'ammorbidente, stendeva le sue camicie di notte, le prime che indossava erano umide, specialmente ai colletti, Odoacre soffriva di cervicale, le sue mani si bloccavano ogni tanto, ad artiglio, le agitava nel vuoto per schiodarle, ricordava in quei momenti Bruce Lee, con la tuta gialla e le bande nere.
Odoacre non sapeva del futuro, le sue imprese tutte in divenire, erano elastiche, duttili, tattili, come il suo indefinito mestiere, che si sapeva solo partente dalle mani, guidato dallo sguardo, non si poteva chiedergli “Cosa fai” e neppure “Dove stai andando”.
Odoacre non mentiva mai quando diceva bugie, il divenire della verità avrebbe potuto prendere quella piega e stirarla, lui lo sapeva, per questo i suoi occhi erano limpidi, solo Certosina li faceva scendere al pavimento, con un broncio o un ciglio sollevato, un fruscio di taffetà.
Era quasi sera, un'ombra di luce seguiva il muovere pacato delle mani, gli occhi che già cercavano una lampadina, stringevano il campo, la fretta non faceva presa, non c'era termine, era solamente una ennesima variante, ad ogni “ci vorrebbe” o “si dovrebbe” Odoacre cercava i materiali adatti per l'opera e si applicava, giungeva, staccava, tagliava, saldava, spesso non si riconosceva, il modello originale. Il termine della variazione era una specie di sorriso, che subito cercava il basso di una nuova verifica.
Certosina capiva l'uomo, ma non le sue mani, voleva ogni tanto arginare le espressioni, fermarlo a un presente, le sue mani erano l'unica cosa che non gli appartenesse, le sue mani e certi suoi sguardi, che lo portavano altrove.
Certosina e Odoacre, facevano l'amore, qualche volta insieme, lei giocava con gli sguardi e con il corpo, mutava i punti di vista, ma non le speranze, non pensava al futuro, non pensava in quale maniera poteva mutarlo, sapeva che comunque l'avrebbe ritrovato intatto, così amava lui che invece collezionava dettagli, particolari, ma con una pessima memoria.
Certosina voleva una casa, salvava per certi periodi degli angoli di quella dispersione d'intenti, li arredava coi ninnoli avuti in eredità; lei ricordava sempre, anche le ore, i momenti, sfogliava la memoria come una rivista, con lo stesso sguardo, la stessa distanza.
Certosina voleva dei cuccioli, di qualsiasi tipo, gli piaceva giocarli nel molle della pancia, fargli agitare gli arti, accendergli gli occhi e spalancare la bocca, li avrebbe poi condotti fino alla soglia e fatto finta di dimenticarsene.
Certosina sapeva di dovere stare, sapeva anche che v'era un centro e delle orbite, forse sapeva anche qualcosa di più preciso, ma non lo dava a vedere, non pensava al futuro o ai debiti, come non pensava che vi fosse un altrove da costruire.
“Moriremo insieme, lo sai?”
“Questo non ha nessuna importanza, non l'ha mai avuta.”
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