Scritto da © Stefania Stravato - Ven, 30/03/2012 - 20:20
L'aveva incontrata spesso, vagando tra le tombe divelte, nei luoghi della memoria, quell'ombra che aveva sembianze d'ossa nivee e lucenti, perfettamente assemblate in forme urlanti la via agli abissi, dove ogni vetta si dissolve a contatto con il bruciore del nulla.
Eppure, nonostante il suo sangue fosse intarsiato da mille e mille tagli, disposti a ghirlande, che gli conferivano la maestosità della vittoria su sterminate schiere di lune nemiche, talvolta i suoi occhi si arrendevano all'incantamento che si sprigionava da quei baluginii di falsa luce, riflessi sulla polvere di antichi cammini.
L'ombra sapeva dipingersi curve di sorrisi e modulazioni di suoni gentili e cingersi il tremare delle ciglia di aloni soffusi, come la bruma che svolge il suo serico soffio, a bagnare d'alba i mughetti. Si distendeva, a volte l'ombra, come la china calda di una duna, odorosa di grecale e offriva il suo magniloquente languore, agli angeli naufraghi di troppi mari, che si erano smarriti nel ritorno al paradiso.
E quando il pulsare nero della sua indole gonfiava quegli effimeri contorni, allora l'ombra si dilatava in un sibilo che agghiacciava ogni azzurro e anche l'ultima più remota stella e ingoiava uno ad uno i germogli di primavera, le sponde quiete dei rii nascosti nei folti e l'innocenza dei voli spersi delle farfalle nuove.
Non aveva tempo e paese l'ombra, né meta e nome. Non proveniva, non andava; esisteva, compiendo nel suo errare in cerchio, il destino e il senso della propria natura.
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