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La spina

Ognuno di noi, e con ciò intendo ogni creatura fornita di discernimento, ogni essere autocosciente (e l’autocoscienza, ci dicono, assurge nell’essere nella fase dello specchio, ossia quando un vivente viene riflesso da una superficie specchiante e si riconosce); ognuno reca in sé una spina, o un impeto, o una metafora, se si vuole, comunque acuminata e pungente che induce all’obbedienza il suo assegnatario. Ognuno di noi è indotto a obbedire a questa spinta nevralgica, pena “morsi” più pungenti ancora, e lo sconforto e l’angoscia che ne scaturiscono quando la si disattende. Questa è la spina del potere, un principio primo che sottintende ad ogni intendere.
Questa spina è più che evidentemente innestata nella rosa della vita, della vita in sé. La quale di per sé fiorisce già con una spinta, dentro, una necessità pulsionale che imprime una fame necessaria ad ogni suo ente creaturale, sicché non c’è, non vi sarebbe essere senza, o privo di, tale necessità. Così, tutto ciò che rientra nel recinto del vivere, tutto ciò che si manifesta come vita nel mondo, necessariamente, lo ripeto, necessariamente deve aver fame, desideri, sennò decadrebbe e noi non saremmo qui, vivi, a tentare di giudicare la vita. Di modo che soltanto se l’essere è vorace sopravvive, soltanto se concupisce si riproduce. Nella sua essenza dev’esserci giocoforza un principio violento: non vive se non a danno di altra vita, foss’anche soltanto quella vegetale. Così, è vivo finché ha fame e finché è fertile.  
Questa voracità dello stato di natura, che coincide pressappoco con le volontà di Schopenhauer, quando incontra l’autocoscienza si esibisce in una metamorfosi irreversibile. Il suo istinto più o meno cannibalesco si fa astratto; il suo bisogno irresistibile si divinizza- non è più fame, è sete: di potere. E se la fame chiama il cibo, oltre la soglia di questa metamorfosi, mutata in sete, indica in un altrove la sorgente della propria soddisfazione. Questa sorgente è il mito. Quindi se l’uomo ha fame, se io ho fame, se giaccio nel bisogno c’è un perché. Questa spiegazione sarebbe che questa fame non è che il contrassegno di qualcos’altro che ci è stato posto proprio per evocarlo. Questo qualcosa è la sete, la sete spirituale. Un bisogno di innalzamento e di purezza, si direbbe, che trascende lo stato di natura, con la sua fame, con i suoi appetiti, traendolo in uno stato di sublimità in cui quei desideri, quei bisogni siano perpetuamente appagati, e quindi soverchiati, vinti. Ecco dove s’insinua la spina del potere, nella puntura avvelenata di una promessa celeste come cura alla insaziabile voracità terrena, che resterebbe comunque la spia materiale della prova a cui saremmo sottoposti onde adempiere a quella promessa.
La spiegazione vera sta in chi concepisce questo movimento. Perché questi pone se stesso come congiunzione tra l’al di qua della fame pulsionale e l’al di là della sete trascendentale. Pone se stesso, di conseguenza, come sacerdote, come il mediatore tra la bruta necessità terrena e il riscatto celeste di cui quella non è che il prezzo. Un prezzo caro, da pagare con pene e sudore per accedere infine alla felicità infinita. Un prezzo doloroso. E’ il dolore la bolletta sospesa sui conti dell’umanità. Ma se lui è l’esattore che esige e rivendica il saldo di tale obolo di dolore, se è lui il tramite di questo baratto tra l’angoscia e la quiete, è evidente che la sua funzione lo fa assurgere ad un limbo che rende dominante il suo orizzonte sopra quello del suo auditorium. Questi non vede che lui, e lui di lassù adocchia invece tutta la loro massa in basso e, in più, qualcosa dall’altra parte che vede lui solo e di cui lui solo si fa garante. La verità vera di questo carosello di rimandi sta in una sorta di rimozione del problema reale, la fame, o meglio nel suo offuscamento, nella sua contraffazione, con l’unico scopo, magari persino inconsapevole, appunto di rendersi il garante di alcunché di altrimenti inaccessibile. Ossia, l’esercizio del potere sul proprio simile.
L’autore di questa turlupinatura della propria gente, molto spesso è convinto lui stesso della veridicità delle proprie frottole: è lui il primo fautore della rimozione. Avverte egli stesso l’angoscia irriducibile di quella fame che gli brulica nelle viscere, e per non doversi piegare al suo diktat tenta di ideare una prospettiva di fuga la quale, onde produrre un bene ideale dell’uomo liberandolo dalla sua angosciosa brama di bene, lo incanala in una ipotesi fittizia, rovesciando nella menzogna l’insostenibile sofferenza del suo bisogno. Ma così infine, non solo l’uomo non è salvato, ma neanche si accenna alle motivazioni vere, radicali che hanno in realtà ispirato gli ideatori, o gli apostoli di questo garbuglio. Di questa congiura, di questa macchinazione. Gli uomini spinti dalla fame e dalla necessità, si incamminano nell’autocoscienza e fattisi forti di un linguaggio e di una nomenclatura cercano di dominare questi fomiti di inquietudine e di insoddisfazione. La parola conferisce loro l’idea di questo dominio, che essi trapassano quindi in un ambito trascendentale. Qui giunti pervengono alla certezza circa le proprie credenze perché esse son tali da esser pensate proprio come rassicurazioni alla debolezza dei dati di partenza – la fame; il bisogno -, dacché la cristallizzazione in mitologia, in dèi, di tali rassicuranti totem. I quali scongiurano magari la fame e il bisogno- ma solo quelli loro e a tutto detrimento degli altri “fedeli”sottoposti.
E’ questa la machina del potere, l’orditura che, immersa nel rimosso, genera in alcuni la smania nevrotica di sottomettere i propri simili, convinti che soltanto nel senso di oppressione dell’altro si attui la propria liberazione dall’oppressione medesima. Un meccanismo che sfiora l’alienazione. Ma un meccanismo che ci riguarda tutti, essendo deposto nelle pieghe innumerevoli e stupefacenti delle parole con cui cerchiamo di spiegarci.  
Così è il nostro stesso terreno epistemologico ad essere impastato nella contraddizione, ossia nella rimozione e nella menzogna. Il terreno del linguaggio, oscuramente rimosso dall’aratro del potere. Ogni parola rappresenta un dominio, e ogni dominio non è che il senso di morte che essa scongiura: viviamo circondati da una materia sconosciuta e minacciosa, ci viviamo dentro sotto il presagio di morte che spira da ogni elemento materializzato davanti ai nostri occhi. Ogni oggetto, essendo fatale al soggetto, soffia contro di noi un’aura di fine, di morte, che il suo nome a malapena riesce a mitigare. Ed è solo un palliativo, e serve solo a rinviare la promessa letale che il creato ci brandisce contro. Ma dà corpo all’idea del potere; alla illusione “nominale” che le cose divengano inoffensive una volta assoggettate alla potenza della nomenclatura. E in tal guisa viene la conseguenza ineluttabile della parola di ritorcere contro il ricevente quel senso di conquista e di sopravvivenza che non ha saputo né potuto strappare al silenzio della sostanza materializzata del mondo.
Il potere, non arrivando giammai a potersi davvero imporre al mondo delle cose, scopo ultimo della sua aurora sull’orizzonte del linguaggio, si volge ad esercitarsi sul proprio eguale- l’unico d’altronde in grado di recepirlo come tale.
Così, dietro ogni grammatica, dietro ogni lessico, dietro ogni frase s’acquatta il demonio del potere, ossia della rimozione dell’impotenza umana davanti alla realtà irriducibile da cui dipende, vale a dire madre-natura. E così qualmente l’uomo si rivale sul, e contro, il suo prossimo della frustrazione di non poter manipolare il meccanismo di cui è ingranaggio; di non potere anzi nulla; di non disporre, allo stato di natura, che è poi quello de facto, di alcun potere.

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