Scritto da © ferdigiordano - Mer, 13/06/2012 - 11:18
Le date assumono l’aspetto delle scuole: vi entriamo e ce ne allontaniamo toccando il gomito del compagno durante l’esposizione, dopo che ci ha negato il suggerimento. Finisce sempre così: la data fa bella mostra di sé e noi usciamo sconfitti dall’ora senza saperlo, al suono di una campanella, più o meno.
Ma questa data - voglio dire: nell’evento circoscritto - mi comprende e nemmeno sfrutta appieno la mia esigua potenza: credo che le date mostrino una misericordia algebrica quando misurano le differenze. Non un giorno segue al giorno seguente, ma lo incorpora come una definitiva assistenza. Mi spiego meglio: se si conta domani quasi certo, è indubbio che oggi sia ciò che lo provoca esistente. E, se domani sarà bello, è perché oggi lo cura con estrema perizia. Diverso è il caso del vivere scontato, per corone, in un rosario di affermazioni eccedenti il respiro corposo.
Spesso, dovendo manifestare una ricercatezza che non possiedo, mi perdo nell’orzo delle parole. Non credo questo sia un vizio, o una pletora del gusto, ritengo, piuttosto, che la traiettoria del mio fiato non passi dal cervello, ma dai piedi, dalle mani, e si porti dietro tutto il sudore ed il puzzo che c’è. Sono convinto che abbia origine dal consumo di strade protratto nel tempo (di qui la convalescenza delle date, il loro incanutimento). Eppure, se mi fosse consentito raccontare come la lingua decide l’imbroglio del senso, parlerei di una effervescenza apparsa quando ancora le gambe scommettevano sulla verticalità dei gesti. Per esempio: avevo gatti che osservavano ore con un preciso regolamento; ma, anche, sapevano attendere immobili ed attenti. Statue di cera lucente, inarcate, con il corpo poggiato su code indecenti e calme. Più coerenti di quanto sia possibile ad un bambino imitarne la sonnolenza. Quei gatti, come tutti i loro familiari, del resto - da qui l’esempio -, mostravano di essere il prototipo della speculazione indipendente. Erano, cioè, servili quando serve e prepotenti quando pretendevano la carezza. Un riferimento formativo come le querce, non c’è che dire.
Ma, in questo adesso, io sono qui, del tutto esecrato dal passato che mi vede come cosa nuova, attesa fino ad un certo punto poi lasciata a passati più recenti più abbiente che ambiente o luogo da conservare - il passato è un tempo prossimo o remoto, in ogni caso sostanziale e verboso in vece del presente che si connota perché continuamente nato e finito. Siedo in una stanza che oltre me conta quattro pareti, diversi tavoli, macchine poggiate in ordine di parata, quadri e altre sedie che mormorano le ragioni dell’indifferenza standosene fermi, similmente ai gatti.
C’è penombra dove la tapparella coibenta la luce del sole; lì faccio apparire un viso noto, una figura amichevole lontana di cui conosco il rumore. All’improvviso una canzone mi assorda, la traduco in voce. Non la mia, ma la sua che attraversa i monti, fiumi, valli, costruzioni, tutto quanto c’è tra il mio sguardo e il suo portamento concreto. Lui usa una tastiera. So che è una tastiera per il semplice fatto che anch’io posso usare solo quella e dirimo discretamente le note dalle lettere. Stendo il tessuto scuro del volto, lo educo ai denti, alle labbra che si tendono, quale espressione serena, senza pioggia. Esprimo da adesso in poi una gioia, un ritrovamento. Comincia la metempsicosi del suono e non sono più solo, mi dico: lui è qui per me, quindi lo canto rinascendo.
piesse: a Francesco / Blinkeye62 che oggi, come ogni mercoledì, mi / vi terrà compagnia con la sua verve intatta da MGRADIO.
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