Scritto da © Anonimo - Sab, 14/11/2009 - 13:10
Quando mi capitò di parlare per la prima volta dei miei amori, ero ad un angolo di strada su un marciapiede di bar e non desideravo altro che parlare dei miei amori, che allora non erano ancora al primo bacio e non se ne erano andati con il primo treno che restituisce i sogni agli addi. E mentre alcuni raccontavano dei vestiti di carne e dei semi infiniti del melograno dei loro amori col megafono del pianto ed altri col coraggio dell’espiazione e il peggiore persino sghignazzava, io dovevo tacere e sperare che qualcuno m’innammorasse per poterne parlare. Ma non c’erano occhi vicini o lontani a cui affidare uno sguardo che mi avesse a bersaglio.
In mancanza di storie e mappe d’incontri, dovetti inventarne a tal punto da portarmi dietro persino le carezze più audaci che mi facevo mano a mano che il racconto cresceva dentro me.
Oggi io potrei descriverne le misure alterne: di quelli che t’involano per poco più di un sesso, o gli altri a lungo terminati e mai completamente smessi (perché l’amore è subito o più lento, ma ha sempre un’agonia di luce che da lontano ancora ti rischiara). Giulia Annamaria Marisa Aurora e di chissà quante altre ancora che nemmeno ho colto e resistono al recupero della memoria storna, perchè la marea del racconto è sirena e porta via chi ne ascolta la risacca.
Quante storie hanno parole epiche e fatali, ma non basta rivangare semi di sospiri: al cuore malato occorre una penicillina di lusinghe!
Ah, Tempo, fossi tu dato in giuste dosi: saresti la medicina esatta!
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