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Incubo?

Sul cielo rosso si stagliano le ombre fumanti delle industrie, il vento innaturalmente impetuoso rende il paesaggio ancor più drammatico e inverosimile. Intorno a me, antiche rovine sparpagliate per la piazza si arrendono alla loro sorte, dopo secoli di sopravvivenza. Scelgo una strada, so di non potermi attardare. Corro tra gli edifici, nella strada vuota mille occhi mi scrutano, ma non sono io il loro obiettivo, è la mia meta. D’improvviso mi si para di fronte una figura conosciuta. E’ Marco, la sua voce borbottante, il suo sguardo assente. Marco, dov’è la via d’uscita? Smette di girare intorno, mi scruta, forse per un attimo interessato, poi mi indica un punto e si volta insoddisfatto. A pochi metri l’acqua ha invaso la strada, Alberto sta aiutando Nola a salire su una lamiera, si guarda attorno occultandola avidamente agli occhi scrutatori. Alberto, aspettami, vengo anch’io! Un leggero cenno d’assenso è tutto ciò che posso strappargli. Balzo sulla zattera mentre già si allontana da riva, mi volto verso Marco con apprensione, ma nemmeno la sua sorte sembra capace di smuoverlo dalla perenne apatia.

D’altronde Alberto non sembra preoccuparsene. Nemmeno uno sguardo, di angoscia o pietà, rivolto a Marco, fissa l’acqua nera dinanzi a sé, avendo forse deciso che è la vista più sopportabile. Le mani gli tremano mentre meccanicamente cerca un’ultima sigaretta nel taschino, e gli ricadono con sconforto quando ricorda di averle finite da tempo. Gli occhi un tempo vivaci di Nola, guardano attraverso il fumo, ma nessuna emozione si legge nella loro gelida luce. La sua bocca è socchiusa in un respiro affannoso, ma sono giorni che non emette fiato. Vinto il ribrezzo, immergo una mano nel canale fetido, e la ritiro quasi subito infangata e oleosa. Per un attimo mi è sembrato di sentirci la vita.

Seguendo la corrente, la lamiera si avvicina ad una nuova sponda. Uomini anziani sono stesi sulla banchina. Molti sono morti, alcuni aspettano di esserlo, almeno risparmiano il fastidio a chi gli sopravvive. Alberto si avvia con Nola in una strada laterale, li seguo qualche passo indietro. I negozi sono abbandonati, spogliati di tutto, mai chiusi dai proprietari, i tempi degli affari sono passati. Alcune donne ancora perlustrano gli alimentari, ma da giorni, ormai, nessuno ci trova niente.

Davanti al vecchio pronto soccorso c’è una fila di donne incinta. Due infermieri sorvegliano la porta, sono seduti per terra e si alzano solo per far uscire ed entrare le pazienti, facendo di tutto per non incrociare il loro sguardo. Molte si guardano attorno con lo stesso sguardo di Nola, altre tengono il viso appoggiato sul petto e sommessamente singhiozzano. Quelle che escono dai portoni si accasciano sulla parete e passano diversi minuti a fissare il cielo.

Non ne sopporto la vista.

Corro lungo le strade più larghe, so che loro mi condurranno lontano, lontano dai mali del mondo. Attraverso quartieri colmi di immondizia, dove i topi si cibano dei meno(o forse i più?) fortunati. Spesso sono bloccato dalle macchine ferme, testimonianza degli esodi dei mesi passati. E’ notte inoltrata quando mi lascio alle spalle l’ultimo hangar, e dovunque mi giri vedo solo campagna. Delle distese d’ulivi rimane solo qualche tronco secco, ma almeno la terra c’è ancora. Provo ad avvicinarmi ad un ceppo, e di colpo sento un crepitio sotto il piede. Una minuscola pianticella giace spezzata nell’arida terra.

Mi volto verso la città, e facendo attenzione al terreno, ritorno alla tomba dell’uomo.

 

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