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Il chiodo e la roccia (intorno agli oggetti - 4)

 
 
            Che il chiodo sia a conoscenza delle vicissitudini mormorate a mezza voce dai quadri è un fatto noto alle cornici che raccontano fatti visionari di cui sappiamo dalle tele. Ma i chiodi non fioriscono dove si piantano, piuttosto fissano le coppie d’occhi a tante meraviglie, a quell’incedere sorpreso che ignora il mantello dei muri cui s'appendono: strappato, stinto, mai riposto se non caduto.
            La roccia annaspa aggrappandosi alla precedente. Sfarina l’anima una litania di polvere e, forse, fa preghiera di durezza da terra. Non può continuamente adempiere al suo ruolo di vedetta, così, se vibra, avverte con una tosse; una sommossa d’atomi minerali negli atri dei suoi bronchi. Il dentro del dolore è un magma che fa della lentezza la sua passione.
            Dovunque il chiodo si lasci infiggere, si perde la faccia per una lingua puntuta; non trascende, è vero, ma cade in contraddizione nel rumore che provoca il martello. Poi, il suo fusto assimila le pieghe. Non lo torce la vecchiaia, né l’angoscia del movimento. Per essere stabile sopporta colpi nel suo asse migliore: se svirgola, è per un’alta resistenza che gli nuoce.
            La roccia subisce lo spazio, non l’inverso. Vorrebbe stare raccolta in punto com’è nella genesi. Non si districa dal caos, non le compete il viaggio: nessun biglietto le dà accesso all’orbita che l’allontana dal suo stesso cuore. Eppure vaga. Transuma, rigurgita distanze e le oppone alle altezze, risolve il dubbio delle procedure: s’incammina per dove noi vorremmo senza averne il turbamento. Ah, quei secoli! Quegli scrosci di millemmi che fanno la pioggia dell’Universo: la roccia è un calendario esterno, forse un palinsesto.
 
            Dove il chiodo buca la mente, la roccia non chiude la breccia, o la crepa.  
 

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