I cani da caccia del Bepi | Prosa e racconti | maria teresa morry | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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I cani da caccia del Bepi

Mio  nonno materno aveva una sola grande passione,  un solo grande capriccio. Andare a caccia con i cani. A dire il vero non credo avesse  una  grande mira , poiché  quasi mai  gli  riusciva di   tornare a casa con qualche cosa  di degno, dopo una giornata a scarpinare per  i campi del Trevigiano,  provincia  che  all’epoca  era una delle  terre più fertili e ricche  di selvaggina, non ancora sconvolta dall’insensato insediamento dei  capannoni della piccola e media industria.
L’unica  volta che si riuscì a mangiare un fagiano arrosto , che -  a detta  del nonno, lui stesso  aveva sforacchiato  - la nonna brontolò  contrariata per essersi trovata in bocca  “ un balìn   da s-ciòpo” , che per poco  non gli  faceva saltare  un molare.
In effetti in famiglia  , nessuno prendeva sul  serio questa  sua velleità. Credo che alla fine mio nonno fosse più innamorato del  fucile da caccia, che teneva sopra l’armadio in camera da letto, misteriosamente  chiuso in una custodia e che credo d’aver visto una sola volta, nonché dei cani da caccia, che egli   si ostinava a voler allevare e addestrare lui , con l’esito che il Pointer  non puntava affatto , il Bracco andava naso a  terra per i  fatti suoi  e il Setter  aveva la brutta abitudine di mangiarsi la preda.
In  casa c’era  sopra un comò ottocentesco  una statuina di  Capodimonte ,  raffigurante un cacciatore in posa , contornato da lepri e da fagiani,  con  il cane da caccia a coda tesa. Mio zio , all’epoca  un ragazzetto,  mi  diceva che quella era la statuina del  nonno e il  cane era l’eroico  Full, il primo della serie.
Provai un immenso dispiacere   quando la donna delle pulizie, nello spolverare un po’ furiosamente ( la casa era  grande e bisognava che tutte le  faccende domestiche fossero finite per l’ora di pranzo, poiché mio nonno  non voleva vedere  scope o aspirapolveri in giro)  ebbe a far cadere la porcellana. Si riuscì a salvare solo la testa di Full che mio  zio raccattò e custodì per svariati anni,  sino acchè il coccio  non gli  ferì un dito e   allora decise di  buttarlo.
Prima di ritornare ai cani,  va pure detto che  il nonno ci teneva  moltissimo a vestirsi  da cacciatore.
Lui, che s ne stava quasi tutto l’anno  dentro l’umile  vestaglia  da pastaio color cappuccino,    quando doveva andare a  caccia, tirava fuori un  guardaroba di prim’ ordine, da Lord inglese pronto alla  caccia al cervo. Giacca  in loden  verde   coi i revers  in velluto  marrone, cappello con piumetta  svettante  di gallo cedrone,  camicia  scozzese intonata, gilet alla cacciatora  con non so quante tasche e taschini.  Braghe in  fustagno, scarponcini e galosce,  cartucciera  doppia mimetica , robusto  canestro  a tracolla ,  intrecciato, per   riporvi la selvaggina, guanti in pelle. Così vestito, me lo ricordo che  si   ammirava compiaciuto  allo specchio dell’ingresso e  faceva una espressione sua tipica di contentezza : arricciava il labbro superiore ornato di  sottili  baffi.
Dove andasse a  caccia, da Venezia, non lo so. Credo che con amici si recasse dalle parti del Piave   trevigiano , ma con precisione non saprei  dire. So che partiva  prestissimo ( solo ora mi  viene da sorridere  nell’immaginarlo all’alba camminare per la fondamenta a  Venezia , vestito da caccia…)  e tornava a  sera, del medesimi giorno.
Tornando ai  cani, due li ricordo  bene  perché accadde  che verso i  70 anni, i miei nonni,  stanchi di fare pasta e creme e vendere cibarie, si ritirarono a finire i loro  anni in un paesino della bassa friulana,  da dov’era nativa la nonna. Preciso che la nonna  era trilingue: parlava un discreto italiano  con “ i foresti”  ( ossia la  gente non  veneta) , mentre   con  noi discorreva egualmente in veneziano e  in friulano, a seconda dell’umore.
In questa  casa  in campagna, una vera casona in sasso,  c’era  un bel giardino  con un più modesto  vigneto, cosicchè  il nonno aveva allestito  un  ampio  recinto dove  teneva i suoi amati due cani.
Qualche volta li liberava, ma se ne pentiva subito perché i due animali correvano come matti e scavavano  enormi  buche, rovinando l’orto  e calpestando gli ortaggi. Era molto difficile riprenderli soprattutto quando infilavano la porta della  cucina  e scorazzavano  uggiolando per  casa.
Mia nonna  alzava la voce : Bepi  ciàma i cani, ciàma i cani che i  fa un desìo  (  Bepi  chiama i cani che fanno un  disastro).
Sull’addestramento, il nonno aveva le sue idee. Penso anche  consultasse dei  libri, sicuramente era abbonato alla rivista La Caccia che gli arrivava puntualmente e dove si leggeva di ardimentose gesta di  cacciatori italiani, dotati di cani eccellenti e fucili grandiosi.
La  “ fissa “    di mio nonno  comunque erano  i fagiani e le lepri, altre prede non lo interessavano.
Con i cani aveva  un rapporto  quasi paterno. Andava a portare loro il cibo, stava con loro, li portava fuori a scatenarsi , preparava la ciotola e  parlava loro mentre questi  ingurgitavano  tutto con le lunghe orecchie dentro al recipiente.
Già  da cucciolotti  cominciavano a  capire cosa dovessero  fare e che cosa ci si aspettasse  da loro.   O meglio cosa  il  Bepi sperava  avrebbero fatto.
La scena era la seguente:    in giardino  da un lato  Bepi,  munito di una  lunga canna  dalla cui estremità  si dipartiva    un filo di parecchi metri,   cui era  attaccata  una specie di  palla di stracci;  dall’altro, con aria sospettosa  o del tutto  innocente , il cagnolone.
Il cane doveva imparare a scovare il fantoccino , puntarlo e riportarlo a comando. Spesso accadeva che il  cane si accaniva sul  groppo  di stracci e , sicuramente per  gioco , lo sventrava. Questo  era un pessimo  segno, per Bepi.
Non di  rado , quando per le  vacanze estive passavo qualche giorno con i nonni,  sentivo Bepi rientrare dal cortile  incazzato e scaraventare la  canna e il fantoccino   dentro un armadio  detto “ degli intrighi”.  Per quel giorno  il cane disobbediente veniva chiuso nel  recinto , lasciato solo a uggiolare.
Alla fine, insisti insisti, qualche cosa questi cani   imparavano e quindi  finalmente potevano andare alla sortita di caccia, all’apertura della stagione venatoria.
 
In una  di queste stagioni  di caccia  si aggiunse un particolare  imprevisto : il terzo  cane di mio nonno.
Una nuora  del  nonno,   una tipa un  poco snob, aveva acquistato un vivacissimo  barboncino nano, nero come il  carbone, tutto  riccio, con un  “ tartufo”  simpatico piantato in mezzo a due occhi lucidi e vivi. Recatasi in  ferie alla casa di campagna, verso la  fine dell’estate,  con il  cagnolino,  di nome  Miki,  la signora  s’era avveduta che l’animale era un poco inselvatichito e non voleva  più fare il cane da compagnia.  In verità MIki aveva scoperto la sua vera natura di cane, curiosa  di odori,  e appena poteva scappava dalla padrona  per aggirarsi per le strade del paese. Dopo  dieci giorni  di soggiorno friulano ,   Miki   stava fuori dalla mattina alla sera e rientrava a  ore tarde, affamatissimo di tutti gli avanzi, ottimi  avanzi,  che mio nonno gli rifilava.
Al momento  del  rientro in  città, Miki  non si fece trovare. Venne cercato dappertutto, dalla soffitta alla cantina, nel granaio e  nelle latrine,  nelle conigliere persino.
“ Senti  Clara  - disse mio nonno alla nuora -  el Miki  non se trova,  làssimelo  qua…el  se farà vivo co el vol e te lo portarò a Venèssia”.
La nuora accettò  ( e forse s’era stufata  del cane irriconoscibile)   e se ne  partì con  il primo  treno  acellerato Udine-Venezia.
Miki, più arruffato che mai, si ripresentò a casa , a ore 22.00.  con la linguetta fuori che pareva un pezzetto di panno rosa.
Iniziò così la  vita campagnola di Miki, cane ex barboncino,  parallela a quella degli altri due  cani. A differenza dei suoi compagni , il  cagnetto era sempre  libero e girava per casa. Ogni  tanto scompariva e  rincasava tardi.
Intanto il pelo  ricciuto  cresceva e non glielo tagliava nessuno.   Nei fitti  ricci c’erano persino farfalle intrappolate  e fiori di campo.  Col il tempo,il cane  perse anche il vezzoso collare.
Accadde che un pomeriggio, già buttato verso  metà settembre, il nonno decise  per una passeggiata per i campi, assieme a Miki.
Non lo portava mai fuori assieme agli altri due  cani, perché  Miki  era talmente  vivace che  i due cani da caccia cominciavano ad inseguirlo per gioco e   tutti e tre andavano ad infrattarsi e a sporcarsi   nei  fossi, ficcandosi  pericolose spighe negli orecchi.
Il nonno, quella volta,  scoprì un  cosa  eccezionale : il barboncino  afferrava i fagiani  con le  zampe anteriori e non li mollava più.
Al ritorno a casa   dalla passeggiata,  Bepi esordì  a  tutti noi dicendo che il Miki  era una cane da caccia  di primissimo ordine.   Raccontò  che   mentre  trotterellava al suo fianco , il cane aveva visto un movimento  furtivo tra le pannocchie ed  era  partito a razzo. Il nonno dietro al cane, pure lui. Inoltrato nel campo,   Bepi aveva visto   il Miki che s’era buttato  su di una  femmina di  fagiano  e, piccolo  come era , la teneva stretta con le zampe. L’uccello, per liberarsi, lo aveva beccato  violentemente  tra gli orecchi e Miki  mostrava   a  noi curiosi  una  ferita  proprio tra i riccetti  del  cranio.
Mutamento  di scena:  finalmente si aprì la stagione di caccia. Un  mattino, quasi all’alba  in una leggera nebbiolina da caldo,    mio nonno  armato e  vestito di  tutto punto, s’incamminava coi due cani verso la piana dove correvano anche i canali di irrigazione.  I due cani , ancora  legati  al  lungo  guinzaglio,  lo strattonavano con violenza  per sensi opposti.  A malapena egli riusciva a tenere il cappello calcato in testa.
Il gruppetto  non  era ancora sparito alla vista della casa,  dietro la  curva, che dal cancello  sul lato del giardino usciva a tutta velocità quel  diavolo  nero del Miki.  Una palla di pelo  con un codino a fungo arruffato.  Raggiunto  il padrone,  il cagnetto   cominciò a spiccare dei  salti di  gioia contro  di lui  e a  girare   intorno agli altri  due cani  che si erano non poco agitati. Il nonno , esausto, liberò i guinzagli  e  i tre cani  si diedero alla macchia  con un abbaiare furibondo, nel quale  spiccava il bau bau  acuto del barboncino.
La  nonna alla  finestra gridava :  Bepi, Bepi  varda che  xè scampà  Miki…
 
Quella  sera mio nonno portò a casa per la prima  volta “ el lièvro “,  il  lepre , catturato   da Miki con l’ausilio , ma mooolto  dopo,  del  Setter.
 
 
 
 
 
 
 

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