Scritto da © Hjeronimus - Mer, 06/07/2016 - 12:51
Un fantasma è riemerso dalla palude del tempo. Il suo araldo è il WEB e il suo nome era Anna.
Il regista Alberto Grifi nel 1974 aveva 36 anni e già un certo curriculum di sperimentatore cinematografico. Il ’68 era da poco declinato e Roma pullulava di ragazzi spersi a ramengo tra le sue vie e piazze immortali. Tra questi, capitò al regista di imbattersi in Anna. Che aveva sedici anni, aspettava un bambino e non aveva un letto su cui passare le notti. Anna, biondina di origini sarde che era diventata (quasi) grande in Francia. Anna che parlava dolce, col suo accento franco-sardo e il suo inequivocabile sorriso, che sorrideva davanti alla catastrofe. Questa è la storia di un naufragio ove, come una barchetta, Anna dondola sull’abisso, inconsapevole della perfidia dell’uragano.
Un bel giorno di quell’anno l’attore Massimo Sarchielli, un amico del regista, la trova al bar, così racconta il film-documento, a piazza Navona. Per caso inizia un dialogo, lui che ha “fame” di soggetti interessanti, viene a sapere del suo dramma, che lei sorridendo calma gli spiattella. Non ha che sedici anni e oscilla qua e là come carta spinta dal vento, alla ricerca ogni giorno di come passare la notte. Non c’è una casa, non un rifugio. Si appella soltanto alla ventura di imbroccare la porta di qualcuno per poter beneficiare della sua ospitalità. Cosa che assurdamente, di quando in quando le riesce. È la Roma sessantottina d’un luogo e post-papalina dall’altro: una “fat-city” che talora apre le braccia come le colonne di San Pietro, e accoglie …
Così Massimo viene a conoscenza del segreto più sconcertante. Anna è incinta. Ha sedici anni, un passato già grave di intossicazione e fuga dai riformatori ed è incinta, senza casa, senza protezione, senza un centesimo. Capisce che bisogna agire, se ne prende cura e cerca di trovarle un rifugio, di darle un aiuto e di ritrovare il padre del nascituro. Lei beve, fuma, si ammala e lui le sta accanto cercando di evitarle la tragedia che incombe da ogni angolo.
In questo suo darsi da fare l’attore non demorde da un progetto filmico, da una narrazione che è parte del suo stare al mondo. Perciò interpella Alberto Grifi, regista che vanta una discreta credibilità nei circoli sperimentali della capitale. Inizia così un film che non ha precedenti: la storia, interpretata da lei stessa, della tragedia di un’anima disperata e senza possibilità di salvezza, mentre si sta distruggendo. Con un doppio contraddittorio intento: salvarla e usarla. L’esito è fatale, non funziona né la pietas del primo, né il cinismo del secondo. Regista e attore si rendono conto che ambedue gli scopi sono ingiusti e sbagliati. Lasciano il film e passano a documentare in videotape tutto ciò che avviene. È il primo film in videotape d’Italia: Roberto sta sperimentando una via diversa per il cinema, mentre cerca di salvare da un massacro predestinato la giovane vita di una quasi-madre. In mezzo ci si mette Vincenzo, l’elettricista, che s’innamora della infelicità di Anna e sogna una vita normale per salvarla. Ma tutto è inutile con la sofferenza. Il dolore è come la decadenza: induce sempre la sua preda a scegliere la via più nociva, di modo che la soluzione è sempre la catastrofe, un male infinitamente più profondo di quello che doveva emendare.
Un anno dopo bazzico piazza Navona. Lì sono di casa, sono nato là vicino e ritrovo tutti i miei amici in piazza, al pomeriggio. Arriva Anna spingendo una carrozzina. Ciao – ciao. Ricordi? C’eravamo visti tempo fa, un anno forse, a Trastevere. Sì, Già. Te eri incinta. Sì, ecco la mia bambina. È carina. Sorride. Giriamo un po’. Non ricordo neanche di cosa le parlo. Di solito indicavo ai miei interlocutori i tesori nascosti dello straordinario luogo in cui avevamo la ventura di vivere. Così avrò fatto anche allora. Le parlai lungamente e lungamente la ascoltavo. Mi inteneriva e mi spaventava il surplace pericolante della sua vita di madre-bambina, senza casa e senza paracadute, per così dire. L’accompagnai così per qualche settimana, preso come da una febbre samaritana analoga forse a quella del regista, che mi era completamente ignoto. Lei non mi disse mai di quell’esperienza. Sapevo soltanto che era allogata da “amici”, in una vecchia casetta sulla Lungara che, disse lei, era di un Hippie, e anzi di sua madre, che gliela lasciava. Ma non c’era mai nessuno colà. Forse è la stessa casa che si vede sul film. Non lo so. Ce l’accompagnavo la sera, cercando di allietarla e consolarla.
Non l’amavo mica. Ma sentivo che era mio dovere trasmetterle un po’ di calore umano e di aiutarla se necessario. D’altronde lei era in attesa del suo Vincenzo, che stava a Milano, forse, per lavorare. Volevo forse darle protezione finché questi non sarebbe ricomparso e così come potevo, l’aiutai. La sua irresponsabilità aveva qualcosa di incantevole e di delirante insieme. Emanava un fascino “uranico”, di un pianeta irrazionale ove le cose andassero a rovescio.
Nella sua casetta solitaria, una sera, dopo aver accudito in breve la creatura distesa lì accanto, venne in discorso la storia dei pidocchi (che stranamente anche sul film ha un senso strutturale, perché cambia la modalità e persino la tecnica della narrazione). Li aveva avuti e siccome anche a me era capitato il medesimo inconveniente, le raccontai come rimediare e come prevenirli. In risposta, volle che cominciassi a carezzarle i bei capelli, alla ricerca delle famigerate bestiole. E come non apparivano, mi spinse eccitandosi a carezzarla più a fondo, a cercare di più, in un abbraccio che, a tal punto, non riuscivo più a rincalzare. Voleva da me quello che voleva dalla vita: amore. Ma la risposta era sempre no. E, quando svoltava in un sì, lei si girava altrove, ahimè … Fui salvato da un pidocchio vero, piccolo, bianco, maledetto. Pensai subito a quello che supponevo: i pidocchi dei biondi sono chiari e non vanno sui capelli scuri, e io ero castano … Mi “disabbracciai” da lei, sottolineando che c’erano davvero. Mi osservò delusa: non poteva ricevere il mio amore, neanche per finzione - a causa del pidocchio … Il giorno appresso le avrei portato un prodotto col quale si sarebbe salvata dai pidocchi … ma anche da me, pensavo. Non c’entravo, non ero io il contraente della sua smania d’amore, né di sua figlia, come ritenne un amico di famiglia vedendomi passeggiare con lei e la carrozzina.
Qualche giorno dopo trovammo Vincenzo per strada, che la stava cercando. Ci fu un abbraccio toccante, con qualche lacrima. Considerai compiuto il mio compito e mi parve come di riconsegnare quella creatura stravagante e ineffabile alla normalità. Andai a casa con una musica che mi suonava dentro le orecchie e che riprodussi sul mio organo elettronico, esaltato e commosso. Mi accorsi successivamente che si trattava dell’adagio della toccata in do maggiore di Bach.
Comunque, il lieto fine sta alla favola così come il lutto s’addice alla tragedia. Rividi Anna mesi dopo, abbracciata ad un altro tale che conoscevo, uno che si rimpinzava di ogni sorta di stupefacenti che riusciva a racimolare. Dissero che si facevano un “trip” (LSD) al giorno e che erano “felici”.
Poi, il giorno di Natale 1975, ero fuori in pizzeria con i miei, a Campo dei Fiori. C’era trambusto accanto a una fontanella. Dei giovani, alcuni conosciuti di vista, sorreggevano un corpo esanime. Cercavano una dose, dissero, quel corpo era in crisi di astinenza. Non vidi mai più Anna. Fu l’ultima volta, svenuta, sul marciapiede, sorretta dalle braccia deturpate dei suoi sventurati compagni di viaggio. Lei, che a tratti delirava, non mi vide nemmeno.
Il regista Alberto Grifi nel 1974 aveva 36 anni e già un certo curriculum di sperimentatore cinematografico. Il ’68 era da poco declinato e Roma pullulava di ragazzi spersi a ramengo tra le sue vie e piazze immortali. Tra questi, capitò al regista di imbattersi in Anna. Che aveva sedici anni, aspettava un bambino e non aveva un letto su cui passare le notti. Anna, biondina di origini sarde che era diventata (quasi) grande in Francia. Anna che parlava dolce, col suo accento franco-sardo e il suo inequivocabile sorriso, che sorrideva davanti alla catastrofe. Questa è la storia di un naufragio ove, come una barchetta, Anna dondola sull’abisso, inconsapevole della perfidia dell’uragano.
Un bel giorno di quell’anno l’attore Massimo Sarchielli, un amico del regista, la trova al bar, così racconta il film-documento, a piazza Navona. Per caso inizia un dialogo, lui che ha “fame” di soggetti interessanti, viene a sapere del suo dramma, che lei sorridendo calma gli spiattella. Non ha che sedici anni e oscilla qua e là come carta spinta dal vento, alla ricerca ogni giorno di come passare la notte. Non c’è una casa, non un rifugio. Si appella soltanto alla ventura di imbroccare la porta di qualcuno per poter beneficiare della sua ospitalità. Cosa che assurdamente, di quando in quando le riesce. È la Roma sessantottina d’un luogo e post-papalina dall’altro: una “fat-city” che talora apre le braccia come le colonne di San Pietro, e accoglie …
Così Massimo viene a conoscenza del segreto più sconcertante. Anna è incinta. Ha sedici anni, un passato già grave di intossicazione e fuga dai riformatori ed è incinta, senza casa, senza protezione, senza un centesimo. Capisce che bisogna agire, se ne prende cura e cerca di trovarle un rifugio, di darle un aiuto e di ritrovare il padre del nascituro. Lei beve, fuma, si ammala e lui le sta accanto cercando di evitarle la tragedia che incombe da ogni angolo.
In questo suo darsi da fare l’attore non demorde da un progetto filmico, da una narrazione che è parte del suo stare al mondo. Perciò interpella Alberto Grifi, regista che vanta una discreta credibilità nei circoli sperimentali della capitale. Inizia così un film che non ha precedenti: la storia, interpretata da lei stessa, della tragedia di un’anima disperata e senza possibilità di salvezza, mentre si sta distruggendo. Con un doppio contraddittorio intento: salvarla e usarla. L’esito è fatale, non funziona né la pietas del primo, né il cinismo del secondo. Regista e attore si rendono conto che ambedue gli scopi sono ingiusti e sbagliati. Lasciano il film e passano a documentare in videotape tutto ciò che avviene. È il primo film in videotape d’Italia: Roberto sta sperimentando una via diversa per il cinema, mentre cerca di salvare da un massacro predestinato la giovane vita di una quasi-madre. In mezzo ci si mette Vincenzo, l’elettricista, che s’innamora della infelicità di Anna e sogna una vita normale per salvarla. Ma tutto è inutile con la sofferenza. Il dolore è come la decadenza: induce sempre la sua preda a scegliere la via più nociva, di modo che la soluzione è sempre la catastrofe, un male infinitamente più profondo di quello che doveva emendare.
Un anno dopo bazzico piazza Navona. Lì sono di casa, sono nato là vicino e ritrovo tutti i miei amici in piazza, al pomeriggio. Arriva Anna spingendo una carrozzina. Ciao – ciao. Ricordi? C’eravamo visti tempo fa, un anno forse, a Trastevere. Sì, Già. Te eri incinta. Sì, ecco la mia bambina. È carina. Sorride. Giriamo un po’. Non ricordo neanche di cosa le parlo. Di solito indicavo ai miei interlocutori i tesori nascosti dello straordinario luogo in cui avevamo la ventura di vivere. Così avrò fatto anche allora. Le parlai lungamente e lungamente la ascoltavo. Mi inteneriva e mi spaventava il surplace pericolante della sua vita di madre-bambina, senza casa e senza paracadute, per così dire. L’accompagnai così per qualche settimana, preso come da una febbre samaritana analoga forse a quella del regista, che mi era completamente ignoto. Lei non mi disse mai di quell’esperienza. Sapevo soltanto che era allogata da “amici”, in una vecchia casetta sulla Lungara che, disse lei, era di un Hippie, e anzi di sua madre, che gliela lasciava. Ma non c’era mai nessuno colà. Forse è la stessa casa che si vede sul film. Non lo so. Ce l’accompagnavo la sera, cercando di allietarla e consolarla.
Non l’amavo mica. Ma sentivo che era mio dovere trasmetterle un po’ di calore umano e di aiutarla se necessario. D’altronde lei era in attesa del suo Vincenzo, che stava a Milano, forse, per lavorare. Volevo forse darle protezione finché questi non sarebbe ricomparso e così come potevo, l’aiutai. La sua irresponsabilità aveva qualcosa di incantevole e di delirante insieme. Emanava un fascino “uranico”, di un pianeta irrazionale ove le cose andassero a rovescio.
Nella sua casetta solitaria, una sera, dopo aver accudito in breve la creatura distesa lì accanto, venne in discorso la storia dei pidocchi (che stranamente anche sul film ha un senso strutturale, perché cambia la modalità e persino la tecnica della narrazione). Li aveva avuti e siccome anche a me era capitato il medesimo inconveniente, le raccontai come rimediare e come prevenirli. In risposta, volle che cominciassi a carezzarle i bei capelli, alla ricerca delle famigerate bestiole. E come non apparivano, mi spinse eccitandosi a carezzarla più a fondo, a cercare di più, in un abbraccio che, a tal punto, non riuscivo più a rincalzare. Voleva da me quello che voleva dalla vita: amore. Ma la risposta era sempre no. E, quando svoltava in un sì, lei si girava altrove, ahimè … Fui salvato da un pidocchio vero, piccolo, bianco, maledetto. Pensai subito a quello che supponevo: i pidocchi dei biondi sono chiari e non vanno sui capelli scuri, e io ero castano … Mi “disabbracciai” da lei, sottolineando che c’erano davvero. Mi osservò delusa: non poteva ricevere il mio amore, neanche per finzione - a causa del pidocchio … Il giorno appresso le avrei portato un prodotto col quale si sarebbe salvata dai pidocchi … ma anche da me, pensavo. Non c’entravo, non ero io il contraente della sua smania d’amore, né di sua figlia, come ritenne un amico di famiglia vedendomi passeggiare con lei e la carrozzina.
Qualche giorno dopo trovammo Vincenzo per strada, che la stava cercando. Ci fu un abbraccio toccante, con qualche lacrima. Considerai compiuto il mio compito e mi parve come di riconsegnare quella creatura stravagante e ineffabile alla normalità. Andai a casa con una musica che mi suonava dentro le orecchie e che riprodussi sul mio organo elettronico, esaltato e commosso. Mi accorsi successivamente che si trattava dell’adagio della toccata in do maggiore di Bach.
Comunque, il lieto fine sta alla favola così come il lutto s’addice alla tragedia. Rividi Anna mesi dopo, abbracciata ad un altro tale che conoscevo, uno che si rimpinzava di ogni sorta di stupefacenti che riusciva a racimolare. Dissero che si facevano un “trip” (LSD) al giorno e che erano “felici”.
Poi, il giorno di Natale 1975, ero fuori in pizzeria con i miei, a Campo dei Fiori. C’era trambusto accanto a una fontanella. Dei giovani, alcuni conosciuti di vista, sorreggevano un corpo esanime. Cercavano una dose, dissero, quel corpo era in crisi di astinenza. Non vidi mai più Anna. Fu l’ultima volta, svenuta, sul marciapiede, sorretta dalle braccia deturpate dei suoi sventurati compagni di viaggio. Lei, che a tratti delirava, non mi vide nemmeno.
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