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Morgenrote - Aurora barbara

Tutti questi segnali che ci trapassano come frecce sibilanti da ogni pertugio; tutte queste avvisaglie di sventura come pioggia battente sull’orizzonte già fradicio d’alluvioni d’insensatezza; questo fiume in piena dell’impazienza, che straripa dall’enfasi acerba di una neo-infanzia del mondo; tutto questo non lascia adito ad equivoco di sorta. È impossibile fraintendere. Siamo sulle ultime trincee del tempo concessoci. Il mondo moderno, così come lo avevamo concepito, sin da Michelangelo e anche prima, e fino al Novecento, sta per non esistere più. Imploderà, e più nulla…
E mentre stiamo scomparendo, intravediamo quelli che arrivano, altri marziani-bambini che ricominceranno tutto daccapo. Rifaranno tutti gli errori e, come noi, giungeranno davanti alla propria eclissi e rifaranno questa stessa considerazione, questo medesimo amaro crepuscolare carme a se stessi, al proprio declino.
Non c’è verso che l’umano si sottragga all’ansito essenziale dell’infanzia, non sfocerà giammai nella maturità. Affonderà nella demenza senile prima ancora d’esser diventato grande. Non appena si affaccerà sul mondo una nuova Atene, un nuovo Rinascimento, tutt’intorno l’infanzia crudele e infinita dell’umanità si affretterà ad abbatterle ancora, per non permettere alla ragione di spifferare e di divulgare il suo torto. Ossia, la sua nevrosi, quella di non-diventare, non maturare. Quella d’esser già sempre ciò che si è. 
Mettiamo sotto lente d’osservazione “tecnica” questa décadence. E lo facciamo risalendo ai nostri stessi trascorsi e riallacciandoli alla tradizione umanistica che sta, appunto, decadendo. Ai tempi dell’università, anni ‘70/’80 del Novecento, era in auge di confrontarsi coi grandi paradigmi del pensiero filosofico: dal Marxismo, a quel tempo predominante, a Nietzsche, posto allora in una inutile contrapposizione al precedente, da Proust e Freud, a Marcuse, Adorno, Horckheimer; da Foucault e Deleuze, al Rizoma e a Lacan; da De Saussure a Hjelmslev e Chomsky, dalla Fenomenologia a Heidegger, Arendt, l’Esistenzialismo eccetera. Tutto ciò configurava una sorta di firmamento interrelato che ci restituiva una specie di bussola per orientarci in quell’universo di saperi e di autocoscienze. Una schiuma ermeneutica che ci esortava a immergerci nelle profondità da cui ribolliva. E noi giù, come argonauti, a capofitto tra i marosi di quell’immenso oceano che chiamavano Umanesimo, a barcamenarci tra le “categorie” del pensiero sistematico, dal grande Aristotele, a Plotino, alla Scolastica di Anselmo e Abelardo; dalla “pazzia” di Erasmo alla logica “more geometrico” dell’altrettanto grande Spinoza; e specialmente dal “metodo” di Cartesio all’immenso contributo di Kant ed Hegel, di cui Marx, ai tempi “nostri” il punto “archimedeo” da cui si faceva partire ogni cosa, non sembra che un figlio minore. 
Tutto questo ci consentiva di gettare uno sguardo abbracciante sul panorama globale dello intelligere che, come i “braccioni” del colonnato di San Pietro, convogliasse l’intera storia della verità in un unico compendio riassuntivo, una grandiosa connessione ultima che, al pari di una Summa Teologica medioevale, concedesse alla Verità un suo definitivo statuto, un assetto supremo ed armonioso. Ahimè… Questo non solo cozzava contro uno dei suoi stessi precetti, cioè che la verità è poliedrica, che vi sono tante diverse verità, tutte aporeticamente valide, ma questa stessa convalida dell’aporia della verità fece da “ariete” per sfondare la resistenza dell’impegno nella sua ricerca e per aprire la strada al disimpegno prima, e alla decadenza qualunquista poi. Perché l’abolizione della verità non abolisce l’effettivo decorrere della verità, ma soltanto la “tenuta”, per così dire, della sua percezione e decodifica da parte umana, intellettuale, gnoseologica. Di modo che l’abbattimento di tale verità, in un tempo di decadenza quale siamo, non implica l’estinzione della verità stessa, che continua a procedere secondo la sua razionale consequenzialità, ma solo il suo ritrarsi dall’orizzonte sensibile. Per esempio, come già avevamo notato tempo fa, non è che il mancato avverarsi del soleggiato avvenire marxista decurti l’analisi della borghesia avanzata dal filosofo tedesco della sua effettiva validità, ma la toglie dal podio di quella immediatezza pubblicistica, che oggi si dice “mediatica”, che la fa apparire obsoleta e irrilevante a fronte di tematiche emergenti, che le sono inferiori e secondarie, non essendo il problema della borghesia né risolto, né preso in considerazione, ma che le pone erroneamente in primo piano, facendo regredire il circuito dialettico dalla causa a soltanto alcuni effetti. Così, invece di preoccuparci che il governo soltanto economico, e quindi grossomodo borghese, della Res Publica, della società e del mondo globalizzato, porta al collasso (e lo stiamo vivendo) ci si preoccupa di fornire lo stesso agonizzante pianeta di by-pass e di altri marchingegni, sempre e assolutamente finanziari, per indurlo alla sopravvivenza con terapeutico accanimento.
È il sistema che è ammalato, non alcuni suoi membri trascurabili. Così, se per fare ancora più soldi si delocalizza, mettiamo in Cina, una nostra produzione con l’intento di vendercela comunque; e poi i Cinesi se ne appropriano e poi, da cinesi, vogliono comunque continuare a rivendercela, ma noi nel frattempo ci siamo impoveriti a causa della stessa delocalizzazione e non siamo più in grado di accattare alcunché, non è evidente che il mostro divora se stesso? E quand'anche i cinesi fossero ricchi abbastanza (magari fra qualche secolo) da poterselo permettere loro quell’optional, vorrà dire che non converrà più produrre colà, e allora che faranno i dirigenti, delocalizzeranno in Africa? Come è evidente, la verità di essere ammalati non può essere respinta con la sola e patetica risoluzione di non volerlo sapere, o di affrontare la sola apparenza estetica del male. Ma siamo in décadence, e l’imperativo dell’ora è rimuovere, dimenticare, galleggiare in superficie evitando accuratamente di incappare nella consapevolezza causale, nell’autocoscienza dello stato delle cose. Allora, tutto quel perfetto, stellare equilibrismo ermeneutico del vecchio universo umanistico è come non fosse mai esistito. Quei re sono deposti: Hegel, Nietzsche, Proust, Mann, Adorno, Foucault- tutto in naftalina, tutto nel dimenticatoio. Non resta che ricominciare daccapo. L’umanità rantola e diguazza nuovamente e ancora in una infanzia infinita, che, come nel delirio degli schizofrenici, non riesce ad affrancarsi dalla nevrosi della fase sadico-anale. Con risiko bellico in agguato…  
Noi avevamo creduto bene che tutto quel magnetismo universale di tutti quei bei nomi tenesse in equo equilibrio quella costellazione della verità, che fosse quindi stabilita in modo determinato e definitivo. L’avevamo ritenuta costruita, pezzo per pezzo, attraverso quella secolare fatica che identifichiamo più o meno con l’Umanesimo, composta da tutte quelle menti eccelse, smontando, decostruendo il pregiudizio mitico originario, fino all’approdo al laicismo. E non immaginavamo neanche che il distacco della costola della scienza (di Cartesio) dal corpo integro del pensiero avrebbe condotto ad una totale disfatta e a un totale asservimento di questo a quella. Subodoravamo un errore, questo sì, in quel privilegio così distrattamente concesso alla techné, ma che questi avrebbe infine divorato la verità, la Aletheia, il disvelamento, l’Illuminismo persino, questo no, non l’avremmo potuto affermare. Così, oggidì, la verità non serve più a nulla e a nessuno. La gente, oramai mutata in massa, vuole solo la ricchezza e la fantascienza: chissenefrega della verità? E il mondo viaggia a ritroso, nella più completa inconsapevolezza, allegramente verso l’apocalisse. Verso la auto-apocalisse.
E pensare che oggi è il mio compleanno…
 
 

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