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Melencolia, dissertazione a latere della rilettura del Zauberberg di Thomas Mann


La questione tedesca. Già, cos’è, di che si tratta, la Questione Tedesca?
A ben guardare, è questione che coinvolge l’intera storia europea sin dagli esordi. Come è stato ben annotato, forse da Le Goff, non ricordo, questa grande storia d'Europa è il risultato di una confluenza di senso e di pensiero, di culture e razze, religioni e opinioni diverse nel medesimo calderone speculativo, che trovava in Cristo il proprio fulcro ermeneutico. Le due fondamentali componenti di tale primordiale “brodo” epistemologico, sono, come si sa, le stesse che diedero luogo alla più duratura e inscalfibile disputa storica sulla missione del governo del mondo, ossia quella latina, che rivendicava al papa-re quel compito, e quella germanica, che riteneva di  farsi discendere dal primato imperiale sotto la corona del Sacro-Romano-Impero..
Ora, il senso di questa missione era quello di chi doveva legittimamente insignirsi della discendenza di Roma. Cosa di cui il papato, facendo risalire la propria preminenza alla volontà divina, poteva più autorevolmente arrogarsi la priorità. Tuttavia, sotto la facciata “missionaria”, si dipanava la trama del potere temporale, del potere imperiale di cui i Tedeschi si consideravano legittimi discendenti e detentori. È così che si incomincia ad enucleare la Questione Tedesca. E con una specie di sdoppiamento di personalità: da un lato, i Tedeschi avocavano a sé la corona imperiale e il potere che ne derivava, in quanto cittadini e sovrani effettivi di Roma- e ci figuriamo come fosse più nobile e altisonante farsi discendere dai Romani, anziché dai Barbari.; ma d’altro canto, andava prendendo forma una sorta di Wille zur Macht (volontà di potenza) teutonica che non si scrosterà mai più dalla storia europea. Una opzione tedesca sul cammino della civiltà che è certamente memore di un certo risentimento nei confronti delle glorie romane e cercava quindi il proprio riscatto in un innalzamento ad un livello almeno pari a quello di tali glorie, della propria storia, delle proprie vocazioni e dei propri talenti.
Ma il divario era, in quei secolo lontani, incolmabile: il lato della cultura e dello spirito restava saldamente appannaggio del soglio pontificio. Una situazione che si protrarrà almeno fino al Rinascimento. Storicamente la decadenza della supremazia spirituale di Roma ci si presenta con una data precisa, l’anno del Sacco di Roma, il 1527. E non perché il Sacco venne perpetrato da soldataglia mercenaria tedesca, ma in quanto atto dimostrativo e simbolico del manifestarsi del potere come violenza, e non come entità metafisica, culturale e “ultraterrena”. A Sparta soggiace Atene, l’”aiuto di Dio” non interviene mai a salvaguardare coloro che pretendono di rappresentarne il regno in terra e il papato verosimilmente non si rende neanche conto al cento per cento di avere ingaggiato con l’Impero una secolare battaglia per il Potere, non per la maestà dell’Altissimo… E va comunque reso merito al genio italiano (quindi anche dei Papi) se questi ha potuto, forte del suo ineguagliabile patrimonio “archeo-storico”, mantenere ancora per due secoli, fino al ‘700, la sua egemonia nelle sfere dello spirito.
Ma per quanto sta alla questione da noi sollevata, bisogna osservare come essa, movendo dai “rumori plebei” del malcontento (e di una sorta di indignato misticismo alla Eckhardt), si consolidi poi nella Protesta di Lutero: è questa la vera prima concrezione del problema tedesco, quando lui afferma la lingua tedesca traducendo la Sacra Bibbia, e nel farlo, fondando anche lo Hochdeutsch, la lingua ancora attuale di tutti i popoli germanici, facendo confluire in un’unica lingua le due grandi famiglie idiomatiche dell’est e dell’ovest (non del sud e del nord, come abituale da noi). Questo passo dentro la storia compiuto da Lutero, “apre” agli araldi della germanicità il campo umanistico. E qui parliamo di Albrecht Dürer, l’artista che, imbevutosi di umanesimo nel suo ripetuto relazionarsi con l’Italia, dipingerà il proprio autoritratto con l’intestazione di essersi fatto a propria immagine e somiglianza, come gli dèi. È una specie di Cristo biondo e nordico che entra nell’umanesimo come tedesco, non più soltanto come umanista.
In una delle sue opere più celebri, l’incisione Melencolia, Dürer illustra magistralmente tutto l’epos del tipo umano che viene affermandosi (die Bejahung, ci dà il tedesco per “affermazione”, che viene da “ja”, cioè “sì”: la “sì-izione”. Una categoria per altro, ma non per caso, nietzschiana). Un angelo biondo siede cogitabondo, davanti ad un’alba assai metaforica, contornato da simboli mistici, esoterici e sapienziali; poggiando il capo, gravato da pensieri evidentemente profondissimi, sulla mano sinistra chiusa a pugno, mentre con la destra scrive qualcosa. Ecco la vera inclinazione dell’umanista tedesco: la vena malinconica, tendente ad uno spiritualismo sospeso tra la visionarietà e una specie di romanticismo, al tempo ancora sconosciuto ma palpitante in fenomeni aurorali come quello del pietismo, e insieme proclive alla speculazione trascendentale.
A questo punto bisogna fare attenzione, perché ogni icona del sapere è un Giano che reca in sé la propria minacciosa contro-faccia: si tratta del medesimo tipo umano che qualcuno sfruttò spacciandolo per tipo “ariano”. Quel qualcuno manipolò la Questione Tedesca onde piegarla ai propri rapinosi e omicidi commerci. Traducendo un luminoso paradigma spirituale in una parabola tenebrosa che lo gettò tra le fiamme dell’inferno. D’altronde, la versione satanica dei paradigmi umani, fattispecie nazionali o territoriali, è sempre in agguato sotto le mentite spoglie del razzismo, del nazionalismo e della xenofobia. È nostro dovere sottrarre al parassitismo dei razzisti i “gioielli” su cui han posto il loro cupo famelico sguardo al solo scopo di depredarli e darli in pasto alla propaganda- così come Giuseppe Verdi, per esempio, ignobilmente saccheggiato dai “nazisti verdi” della Valpadana. 
Ma il malinconico angelo biondo è il Wanderer, cioè il viandante delle immense praterie dello spirito e delle nere foreste dell’immaginario, ben osservato da Canetti; è il Freischütz di Weber che penetra nel regno favoloso della Natura per cercare risposte all’incalzare inconscio del sentimento e del soprannaturale. E la cifra di quell’angelo biondo si ripercuote fin nei precordi di quella antica Bejahung della germanicità, fino alla melencolia nichilista, riscattata tuttavia dal pungolo dell’auto-superamento, di Freud, Nietzsche e Mann.
Ciò che è arrivato dopo non è che una degenerazione qualunquista di un manipolo di sadici idioti, che ha danneggiato irreparabilmente tutto ciò di cui parliamo, ma che per l’essenza di tale discorso è totalmente inutile, come un’escrescenza purulenta che non può mettere in forse l’armonia, come dire?, “ellenica” del corpo umano. Ma può ritardarla e persino oscurarla. Per esempio, causando una diaspora delle intelligenze (se non un loro sterminio, come pure avvenne). Ecco dove può portare il fanatismo di pochi frustrati mentecatti: all’estinzione del luminoso paradigma umano che pure hanno piegato all’uso di una pagliaccesca reclame della loro rapina, passata per virtù, per “razza superiore”, ahimè... In questo senso, quello qui avanzato, il nazista Heidegger aveva pur ragione nel  sostenere che, per lo spirito, la guerra non aveva cambiato niente (frase famosa, contestata a buon diritto da Umberto Eco- “La struttura assente”, 1968). 
Proprio sotto la pressione del rovinoso senso di apocalisse che la storia tedesca andava imprimendo a se stessa, Thomas Mann descrisse nel Zauberberg, “La montagna magica” (e non “incantata”, come spesso è dato), la storia virtuosa di una Questione Tedesca che invece, sull’altro fronte, si “abbandonava all’ebbrezza infernale” (“Doctor faustus”). Era lo stesso angelo biondo di Dürer, con le sue qualità e i suoi difetti, e non il macellaio sadico che ne aveva escogitato,o, per meglio dire, cavato fuori la rabbiosa, vendicativa frustrazione di esseri umani falliti e ottusi. La Questione Tedesca poteva essere qualcosa di benaugurale, di auspichevole, e non soltanto fondarsi e ridiscendere necessariamente nella barbarie. Nel volgere di pochi anni, un manipolo di scellerati e di microcefali distrusse la fatica quasi millenaria di quell’angelo biondo e fece calare un sipario di orrore e di oscurità sull’onore di quelli che, dai primi  re analfabeti, giù giù, da Dürer, Göehte, Hegel, Bach e Beethoven, Nietzsche e Mann agli ultimi grandi, scacciati, perseguitati e uccisi, avevano reso immortale l’alloro sul capo della melanconia. 
Già, la Melencolia. Da questa angolazione visuale possiamo arguire una prossimità, una intimità, fra il concetto che cerchiamo di disadombrare, la “Questione Tedesca”, la germanicità, e la melanconia. È in effetti una sorta di prerogativa assai feconda dell’angelo biondo quella sua disposizione ad una malinconia che ne stimola l’immaginazione, il sentimento, la meditazione profonda. Già Kierkegaard attribuiva a questa tale qualità del suo spirito (unitamente al privilegio famigliare dell’agiatezza) tutti i suoi meriti, se pur tali erano da considerarsi (e poco ci importa che fosse di nazionalità danese: il discorso pertiene al tipo etnico-psicologico, non al confine politico). Mentre in contro-canto la malinconia appare anche come categoria patologica della psicoanalisi, ov’essa può cangiarsi in condizione alienativa e tralignare nella depressione- è forse questo il “lato oscuro” che si getta infine nel nichilismo. Un lato che ci è tramandato in determinazioni varie, per esempio quella di “pessimismo mitteleuropeo”, e che si coniuga con la configurazione crepuscolare di una certa immagine climatica dell’ambiente nordico: il freddo, la neve, la vita “rinchiusa” dei focolari domestici (il cui senso di intimità “epifanica” ha in tedesco un nome intraducibile: Gemütlichkeit – qualcosa come “godimento dei piaceri famigliari”); e persino con l’idea dietetica che lega la melanconia a una determinata alimentazione.
Ora, mi pare fondamentale introdurre una netta distinzione tra il disturbo malinconico della psiche, e invece il fecondo distillato spirituale che rende sublime il dolore permeante della malinconia. Potremmo spingerci ad asserire che essa rappresenti all’uomo nordico una sorta di concentrato di bene e di male in cui sarà soltanto il suo libero arbitrio a discernere e a incanalare il suo giudizio verso una luminosa equità ( e pietas umana), ovvero verso l’iniquità, la scellerataggine. Insomma, malinconia come ago di una bilancia sempre e comunque tesa allo stremo, che “tira” i valori all’apice della loro tenuta - e i valori “trasvalutano”, seguendo Nietzsche, debordando, tracimando dalla loro accezione “filistea” della verità, nel loro contrario “spietato”. Questo “contrario spietato” si è dilatato nella storia come catastrofe nevrotica del melanconico, incarnandosi nell’alienazione “cannibale” del nazismo. Sì da consentirci questa conseguenza “politica”: la malinconia patologica, quella psichiatrica per intenderci, è il prodromo da cui si promana e potrebbe ancora espandersi l’infezione autocratica delle destre, almeno a nord delle Alpi (ma anche a sud è ravvisabile il medesimo automatismo). Con il che, sarebbe grottesco trarre l’ulteriore conseguenza opposta, che si postuli qui  una malinconia “buona”, o “progressista”, e magari, sfiorando l’ottusità, “di sinistra”…
Queste non sono entità soggettive e si muovono su un piano sovrastrutturale, sociologico, intersoggettivo rispetto al tema profondamente interiore della melencolia. L’unica connessione “politica” l’abbiamo tracciata sul filo degenerativo che trae la disposizione malinconica all’isolamento nevrotico, e di qui a una sorta di furore, di “sete di vendetta”, e infine all’odio auto-distruttivo che deflette sull’intero genere umano la propria smania di annientamento. Una iconostasi dell’infelicità che immagina stoltamente di esprimersi come forza, come volontà di potenza, laddove non ostenta che un odio viscerale verso la (propria) vita. 
La malinconia è un sentire fecondo, capace di dispiegare le ali del suo angelo biondo e di innalzarlo alla sublimità. E così facendo, realizzando l’auspicio radioso dell’umanesimo nordico. Cioè, la pienezza del genio romantico e razionale insieme, in cui il senso del tragico e della costruzione rigorosa si uniscono sotto le insegne della pietà e della solidarietà (Bach; l’Inno alla gioia; Goethe). Ma può anche rovesciarsi, dicevamo, contraendosi in una figura solipsistica, “onanistica”, nichilista. L’ angelo biondo cerca, nella solitudine nordica di boschi sconfinati, bianchi di neve e neri d’ombra, la sua via alla salvazione e alla comprensione  e all’estasi, sempre incalzato dal “demoniaco”, il Faust, il collasso dei contrari, che alloggia nel suo medesimo seno malinconico. Le sue parole sono: l’anelito, il riscatto, la purificazione, la trascendenza. E il suo è il canto dei “Milioni” invocato da Beethoven sulla falsariga lirica di Schiller.
È da un accorato, commosso appello alla fratellanza che può insorgere anche la sua antitesi: una bruciante e feroce disillusione , capace di compulsare nei cuori animati prima dal senso di una missione salvifica, l’istinto vendicativo di una missione viceversa “etnicamente purificatrice”… E con il comune denominatore comunque di quel senso missionario e universalistico di cui l’ angelo biondo si è insignito da sé, interpretando il proprio sentimento malinconico come primato morale che lo eleva al di sopra del mondo, della calma piatta e peccaminosa in cui esso si trascina in uno stadio perfino anteriore alla civiltà.
Così, la Questione Tedesca diventa una opzione morale velata di tristezza, e non scevra di presunzione, sui destini cosmici della coscienza gnoseologica dell’uomo, ponendo proprio in tal guisa le premesse per la sua possibile inversione satanica, così ciclicamente risorgente. Ossia, qualcosa che è peccato e redenzione insieme, inferno e paradiso, abisso ed aurora, per una integrità incompiuta ove l’idea eroica della missione salvatrice dalla malinconia del mondo, si volge in quella di abbatterlo per la sua inemendabilità.
Azzarderei a complemento una glossa che non so soppesare. Che cioè, forse, per afferrare appieno questa materia è necessario che qualche goccia di sangue crucco ci infesti l’organismo, non lo so. E non so neanche, di conseguenza, se non si tratti qui appunto di tale contaminazione che mi esorta a immischiarmici. Tuttavia, non è che la malinconia sia un territorio riservato a soli adepti “vichinghi” o affini. Altrimenti dove andrebbero a finire le tristi melodie, che so, di un Bellini, le liriche accorate di Leopardi, o i cori ineffabili di Verdi?
 
 

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