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Letture derubricate

Non volevo mai leggere qualcosa di Isabel Allende, non per mancanza di simpatia, al contrario!, con quel cognome che porta mi sono sempre sentito in obbligo di simpatia e di accoglienza. Ma perché avvertivo l’odore marcio della fama da best-seller, che mi ha sempre istigato un sentimento refrattario e indispettito. Posso avanzare due esempi in cui la successiva lettura mi aveva poi confermato nel mio dissenso. Uno era “Cent’anni di solitudine” di Marquez, un libro che quando uscì divenne indisponente come la televisione: fu l’unica volta che vidi un bigliettaio del tram (che ai tempi esistevano ancora) con in mano un libro… così, quando lo lessi finalmente qualche anno fa, trovai azzeccate le mie pessimistiche previsioni. Era un libro per non-lettori, tutto pieno di invenzioni visionarie e mirabolanti, e infarcito di quella particolare retorica latino-americana che conserva qualcosa tra Don Chisciotte e la New Age. Per me, antesignano di una cattiva letteratura indirizzata a occhi più avvezzi alle “Telenovelas” che alla cultura (e con un  pizzico di allucinogeni hippy che, ai tempi, non guastava di certo). Dentro, c’era una struttura circolare che, chissà perché, fa vagheggiare ai non-lettori chissà che spropositati apici artistici. Beh, direi loro, guardate che è un accorgimento classico quello che fa rigirare la fine sull’inizio. Non ci vuole Leonardo da Vinci, basta guardare il quadrante di una “cipolla”…
L’altro libro era “L’insostenibile leggerezza dell’essere”, da me subito ribattezzato “L’insostenibile leggerezza del leggere”. Libro di un tuttologo, Kundera, che tutto sa e tutto ricicla. Non lascia alcuno scampo alla fantasia del lettore: lo cattura con una certa astuzia e poi lo induce a seguirlo, minacciandolo altrimenti di soffocazione. E il suo “capolavoro” significa solo questo: io so tutto, e voi non siete un cacchio! Il che, foss’anche vero, gradirei mi fosse risparmiato di sentirmelo gridare nelle orecchie. Grazie.
Torniamo a Isabel Allende e al suo “Paula”, appena letto. Ora, Paula era sua figlia e il libro racconta dell’agonia di questa ragazza, stroncata da una rara malattia nel fiore degli anni. E di come lei, sua madre, nipote di Salvador Allende, il leggendario presidente cileno prima boicottato dagli americani in combutta con l’intera borghesia cilena e i militari, e poi massacrato da questi ultimi; di come lei ne divenga la custode triste ed amorosa fino alla fine. Occorre qui il rispetto, prima di giudicare un testo. Il rispetto davanti ad un accorato Stabat Mater, e Dio sa se non conosco ciò di cui parlo. Detto questo, nondimeno è un libro, ciò di cui si parla. Un libro scritto per lenire, per cauterizzare la mostruosa ferita che si veniva aprendo e, insieme, un libro scritto per la memoria. Infatti è più o meno un diario. E così all’interno ci cade il particolare della vita movimentata dell’autrice, che si connette all’universale, nel tragico e sanguinario turbine storico che la sospinge fuori della sua patria. Lei ribadisce a più riprese che si sentiva una hippy vestita da hippy, e difatti finirà per  concludere il periplo delle sue circumnavigazioni in California. E in questo ci offre un doppio quadro epocale: quello libertario e contestatario della Sinistra, risorto nei Campus universitari e California dreaming; e quello violento e rapace della Destra, incarnato nella macabra estetica nazista del mantello dittatoriale di Pinochet.
Come dimenticare un èra “giovane”, quando tutti calpestammo i prati del pacifismo e i viacoli del profetismo on the road? Quando qualcuno suppose che la droga fosse liberazione, invece di schiavitù? Quando vincemmo la guerra in Vietnam, noi ragazzini contro la più mastodontica e inesorabile macchina da guerra mai concepita al mondo?… Altri tempi, ahimè…
Ho così finalmente saputo se lei era una “vera” scrittrice”, oppure no. E sa scrivere, devo ammettere, e lo sa fare perché non decide di saperlo fare, ma ne viene come sopraffatta dal semplice divenire della sua vita. Ma non basta. O almeno non basta a me. Provo una profonda insoddisfazione nel dovermi cimentare con gli spiriti, l’astrologia e le religioni. Quando leggo, avanzo una pretesa: io e la mia lettura dobbiamo essere alla pari. Non mi basta l’estetica da sé, mi ci vuole qualcosa di “alto” da cui far discendere il mio coinvolgimento, la mia tenerezza, la mia umana fragilità. Con il che non affermo affatto un concetto di saccente alterigia: non discuto che ciò che leggo mi superi, mi surclassi, come magari è qui il caso. Ma si tratta esclusivamente di requisiti miei, senza dei quali la mia lettura è de-strutturata, per così dire…
In più, non è che ami molto questo “spiritismo” latino delle Americhe: pare che laggiù si muovano molto più oggetti paranormali che nella vecchia Europa. Mah, che si effetto del Peyote? Boh, mah, non si sa. 
 

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