Scritto da © Hjeronimus - Lun, 13/01/2014 - 18:13
La vita-contro. Sulle scogliere inglesi un enorme costone si sbriciola e precipita tra mare e sabbia, in una catastrofe di fumo vapore e polvere, come una bomba di filmati “tardo-antichi”, in bianco e nero. Lo stesso fa una fiancata dolomitica, screpolandosi fragorosamente e franando rovinosamente in giù, in obbedienza alla gravità universale, non certo messa in opera per mirabolanti giochi d’equilibrismo. Ora, consideriamo la nostra semenza: fossimo stati termiti o formiche, alloggiati nelle profonde fenditure di quelle rocce; o uccelli strepitanti sopra i mari, i cui nidi s’arrampicassero temerariamente su quelle guglie precarie; o uomini, infine, che di lassù avessero inteso godersi l’ermo orizzonte spalancato sul davanti… che cura avrebbe mai prodigato loro la tanto declamata e incensata madre-natura? Niente, nessuna. Avrebbe semplicemente lasciato che tutto il “cantico” delle sue creature s’infossasse, parimenti a pietre e polvere, giù, nell’abisso del proprio sgretolantesi fallimento. Ecco, vivere è contro.
Come ben aveva notato Leopardi, la vita, fin dal suo sorgere, si ingegna di contrastare e sopraffare il proprio stato di natura. La sua continuazione è semplicemente legata alle sue capacità in questa competizione, in questa disfida incessante con la propria configurazione creaturale. La natura ha dalla sua la fame, il freddo, la malattia. Cui la vita non può che opporre i propri esigui rimedi, per altro inseguiti nella corsa di millenni: la pelle, la caccia, i beveroni. gli elisir.
Alla natura, conchiusa nell’aureola del suo inesplicabile silenzio, non gliene frega un accidenti di noi, o delle metafisiche categorie entro le quali cerchiamo disperatamente di catalogarla e di comprenderla. Per spiegarla, per cercare di sottrarle l’insensato mistero che la muove. Perché la vita cerca alacremente di vivere? Perché spunta fuori da condizioni non cercate da nessuno, eppure concretatesi nella storia dell’universo? Perché dal fuoco viene carbone e da questo l’acqua, le cellule, le creature? Perché la creaturalità si impone sulla natura, nonostante il chiaro dissentire di questa da quella? Perché qualcosa, in un buio infinito, lacerato improvvisamente da una immane deflagrazione, decide, si determina e anzi spinge, affinché viva?… Cos’è questa lotta fra la vita che vuole vivere, e madre-natura, invece, che sembra volerglielo impedire ad ogni costo? Perché lasciar fiorire questa fauna nel proprio seno, avendo in animo di fiaccarla, di sbarrarle il passo ad ogni passo, di sterminarla?.O natura cortese, ma che cavolo vuoi?.
Nasce l'uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell'esser nato.
Ora, se osserviamo il muoversi della natura nel suo insieme, dal passo incerto di un’ameba, ai moti di mari e venti, fino allo sterminato rotolare di stelle e pianeti nell’immenso pneuma spazio-temporale dell’universo, notiamo questo: la coerenza logica di ogni moto verso il proprio effetto. Ogni mossa, dal più insignificante flettersi dell’antenna di un gasteropode, magari in fondo al mare, alla curvatura del cosmo imposta dalla gravitazione universale, trova in quella coerenza logica la propria inappuntabile conferma. Questo, la piegatura di quell’antenna come l’orbita dei pianeti, trova in quello, la logica, la propria legittima convalida. Ed esiste per legge necessaria e ineluttabile. Ora, perché e come è possibile che proprio nella sua essenza più intima e radicale, questo rigore inesorabile decade nel silenzio del creato? Ossia, se la più infinitesimale movenza dell’ente più insignificante dell’universo trova comunque in quella coerenza logica l’indefettibile responso alla legittimità del suo essere-. che so, un sasso cade perché si sgretola il terreno sotto di lui, una rana divora un insetto per la sua sopravvivenza -, perché proprio la causa prima, l’essere, risulta invece privo di tale coerenza?. Perché la vita è? Mentre i suoi atti rilucono nitidamente alla luce della coscienza – il lupo uccide e divora per la sua vita; i pianeti orbitano intorno alle stelle per l’equilibrio universale -, nulla ci educe sulla caparbietà con la quale l’essere si abbarbica alla vita, lottando sin dal primo vagito contro la natura… Freud dice che tiene solo alla immortalità della propria specie. Tiene quindi alla immortalità che tramanda nella riproduzione. Già, ma perché? E poi cos’è una “specie”, una specie di che?.
La Kabbalah, di tra i pensieri grandi che si sono misurati con quei “perché”, ha fatto il gioco più facile: parte semplicemente dal “subito dopo”: tutta la speculazione è sul dopo, il “subito prima” è Dio, e tanto basta. Anche perché Dio non si può né sapere, né nominare. Quindi a che pro dannarcisi a rispondere? La religione cristiana cade addirittura nella tautologia: chi è Dio? Dio è l’essere perfettissimo, eccetera… Come dire: chi è l’essere? E rispondersi: l’essere è l’essere che é. Come chiedersi: cosa è il cucchiaio? Il cucchiaio è un cucchiaio. Perfetto… Tutto ciò mentre la domanda resta inevasa: cosa muove il principio primo, se tutti gli altri, a partire dal secondo, sono mossi dalla coerenza logica? Certo, potremmo anche azzardare che la coerenza logica è ciò che appare, a noi, animali logici! E che quest’apparenza può ingannare; che l’universo non è logico, né coerente. È semplicemente così perché non potrebbe essere altrimenti. Sì, eppure non v’è stravaganza animale che non sia infine logicamente coerente alla propria necessità. La vita, contrastata dalla natura, cerca di aprirsi un varco tra quelle ostilità razionalmente. È questo l’Amleto: essere/non essere: a quale ratio appendere la risposta?
Certo, potremmo, analogamente a Santa Madre Chiesa, appellarci al pensiero mitico e chiuderla là, con questa specie di sillogismo: se la coerenza logica di tutto ciò che è rimanda sempre ad una causa e un effetto, la causa prima della voglia di vivere della vita va posta in una coerenza logica che la precede e che non può che risultare trascendentale. E quindi, l’oscura volontà (alla Schopenhauer) che muove l’inerte verso l’animato sarebbe oscuramente ontologica. Una sorta di ente mistico/metafisico preposto a insufflare nell’inorganico il battito del processo biologico. Ma qui non possiamo ricorrere al pensiero mitico- perché definiamo così un pensare appeso ai simboli, ai fonemi, che, in quanto tale, procede a ritroso dal suono, o segno, linguistico verso il proprio oggetto, di modo che questo non è oggettivato dalla esperienza, ma dal simbolo. Si tratta quindi di una rappresentazione, un “doppione”, di ciò che cerchiamo, un film- cui è poi facile comminare un lieto fine magari spirituale ed elettivo, ma sempre come doppio, come rappresentazione, come arte- non laicamente come esserci. Cioè come esistenza: è questo che “fa verità”, laica e demitizzata, sulla condizione (e sui dilemmi che pone) di ciò che è.
Se muoviamo dall’oggetto e dalla “spinta” che lo anima, eccoci di fronte all’esserci, alla pura esistenza, nuda e cruda, della totalità che ci contiene. Senza dèi e senza “aureole” improbabili ed estrinseche. Eppure, ecco quel totus venirci incontro in quella sua coerenza razionale che va da una causa, oscura, impenetrabile, inscalfibile, verso un epilogo perfetto e rigoroso. Se tutto al mondo è rigore e perfezione, ci chiediamo, perché proprio l’atto primario, aurorale dell’essere è invece monco di tali requisiti?. Ossia, perché esiste, vuole esistere, “spinge” per venire alla luce, così, incoerentemente, mentre tutto ciò che avviene di lì in poi è invece, per così dire, “ammantato” di coerenza logica?
… Non possiamo rispondere a una tale domanda. Ma possiamo azzardare questo: potremmo anche assegnare una necessità coerente al prima di quell’aurora. Potremmo anche supporre che in quella smania di sorgere si riponga un segreto tendere a destini diversi da quelli a nostra disposizione. Magari, la necessità coerente e razionale dell’impulso vitale non è l’essere per la morte (per dirla à la Heidegger). Cioè, la spinta iniziale che da avvio al ciclo vitale non coincide essenzialmente con il suo fatale epilogo: ciò che inizia non è ciò che poi finisce. Già, ma se è coerentemente razionale alla forza del suo imperio, dove va a finire quella sua oscura volontà? Cosa vuole davvero la vita? C’è forse una opzione segreta nel suo codice che inclina a una forma indefinita di adempimento? Qualcosa che sia coerente alla forza straordinaria che la chiama nel mondo? Qualcosa che sia conseguente al rigore perfetto della sua premessa? Qualcosa che naviga verso una forma sconosciuta di perfezione?.
Ecco dunque che diverrebbe possibile rispondere anche al quesito iniziale: la lotta della vita contro la natura non sarebbe altro che l’anelito della prima di imporsi sulla seconda (il “Dio che si sta facendo” di cui parla Borges). Quando la vita fosse, di stadio in stadio, pervenuta a quella perfezione, chissà, magari la natura si potrebbe dichiarare battuta, non essendo più in grado di ostacolarla e renderle… la vita impossibile.
Come ben aveva notato Leopardi, la vita, fin dal suo sorgere, si ingegna di contrastare e sopraffare il proprio stato di natura. La sua continuazione è semplicemente legata alle sue capacità in questa competizione, in questa disfida incessante con la propria configurazione creaturale. La natura ha dalla sua la fame, il freddo, la malattia. Cui la vita non può che opporre i propri esigui rimedi, per altro inseguiti nella corsa di millenni: la pelle, la caccia, i beveroni. gli elisir.
Alla natura, conchiusa nell’aureola del suo inesplicabile silenzio, non gliene frega un accidenti di noi, o delle metafisiche categorie entro le quali cerchiamo disperatamente di catalogarla e di comprenderla. Per spiegarla, per cercare di sottrarle l’insensato mistero che la muove. Perché la vita cerca alacremente di vivere? Perché spunta fuori da condizioni non cercate da nessuno, eppure concretatesi nella storia dell’universo? Perché dal fuoco viene carbone e da questo l’acqua, le cellule, le creature? Perché la creaturalità si impone sulla natura, nonostante il chiaro dissentire di questa da quella? Perché qualcosa, in un buio infinito, lacerato improvvisamente da una immane deflagrazione, decide, si determina e anzi spinge, affinché viva?… Cos’è questa lotta fra la vita che vuole vivere, e madre-natura, invece, che sembra volerglielo impedire ad ogni costo? Perché lasciar fiorire questa fauna nel proprio seno, avendo in animo di fiaccarla, di sbarrarle il passo ad ogni passo, di sterminarla?.O natura cortese, ma che cavolo vuoi?.
Nasce l'uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell'esser nato.
Ora, se osserviamo il muoversi della natura nel suo insieme, dal passo incerto di un’ameba, ai moti di mari e venti, fino allo sterminato rotolare di stelle e pianeti nell’immenso pneuma spazio-temporale dell’universo, notiamo questo: la coerenza logica di ogni moto verso il proprio effetto. Ogni mossa, dal più insignificante flettersi dell’antenna di un gasteropode, magari in fondo al mare, alla curvatura del cosmo imposta dalla gravitazione universale, trova in quella coerenza logica la propria inappuntabile conferma. Questo, la piegatura di quell’antenna come l’orbita dei pianeti, trova in quello, la logica, la propria legittima convalida. Ed esiste per legge necessaria e ineluttabile. Ora, perché e come è possibile che proprio nella sua essenza più intima e radicale, questo rigore inesorabile decade nel silenzio del creato? Ossia, se la più infinitesimale movenza dell’ente più insignificante dell’universo trova comunque in quella coerenza logica l’indefettibile responso alla legittimità del suo essere-. che so, un sasso cade perché si sgretola il terreno sotto di lui, una rana divora un insetto per la sua sopravvivenza -, perché proprio la causa prima, l’essere, risulta invece privo di tale coerenza?. Perché la vita è? Mentre i suoi atti rilucono nitidamente alla luce della coscienza – il lupo uccide e divora per la sua vita; i pianeti orbitano intorno alle stelle per l’equilibrio universale -, nulla ci educe sulla caparbietà con la quale l’essere si abbarbica alla vita, lottando sin dal primo vagito contro la natura… Freud dice che tiene solo alla immortalità della propria specie. Tiene quindi alla immortalità che tramanda nella riproduzione. Già, ma perché? E poi cos’è una “specie”, una specie di che?.
La Kabbalah, di tra i pensieri grandi che si sono misurati con quei “perché”, ha fatto il gioco più facile: parte semplicemente dal “subito dopo”: tutta la speculazione è sul dopo, il “subito prima” è Dio, e tanto basta. Anche perché Dio non si può né sapere, né nominare. Quindi a che pro dannarcisi a rispondere? La religione cristiana cade addirittura nella tautologia: chi è Dio? Dio è l’essere perfettissimo, eccetera… Come dire: chi è l’essere? E rispondersi: l’essere è l’essere che é. Come chiedersi: cosa è il cucchiaio? Il cucchiaio è un cucchiaio. Perfetto… Tutto ciò mentre la domanda resta inevasa: cosa muove il principio primo, se tutti gli altri, a partire dal secondo, sono mossi dalla coerenza logica? Certo, potremmo anche azzardare che la coerenza logica è ciò che appare, a noi, animali logici! E che quest’apparenza può ingannare; che l’universo non è logico, né coerente. È semplicemente così perché non potrebbe essere altrimenti. Sì, eppure non v’è stravaganza animale che non sia infine logicamente coerente alla propria necessità. La vita, contrastata dalla natura, cerca di aprirsi un varco tra quelle ostilità razionalmente. È questo l’Amleto: essere/non essere: a quale ratio appendere la risposta?
Certo, potremmo, analogamente a Santa Madre Chiesa, appellarci al pensiero mitico e chiuderla là, con questa specie di sillogismo: se la coerenza logica di tutto ciò che è rimanda sempre ad una causa e un effetto, la causa prima della voglia di vivere della vita va posta in una coerenza logica che la precede e che non può che risultare trascendentale. E quindi, l’oscura volontà (alla Schopenhauer) che muove l’inerte verso l’animato sarebbe oscuramente ontologica. Una sorta di ente mistico/metafisico preposto a insufflare nell’inorganico il battito del processo biologico. Ma qui non possiamo ricorrere al pensiero mitico- perché definiamo così un pensare appeso ai simboli, ai fonemi, che, in quanto tale, procede a ritroso dal suono, o segno, linguistico verso il proprio oggetto, di modo che questo non è oggettivato dalla esperienza, ma dal simbolo. Si tratta quindi di una rappresentazione, un “doppione”, di ciò che cerchiamo, un film- cui è poi facile comminare un lieto fine magari spirituale ed elettivo, ma sempre come doppio, come rappresentazione, come arte- non laicamente come esserci. Cioè come esistenza: è questo che “fa verità”, laica e demitizzata, sulla condizione (e sui dilemmi che pone) di ciò che è.
Se muoviamo dall’oggetto e dalla “spinta” che lo anima, eccoci di fronte all’esserci, alla pura esistenza, nuda e cruda, della totalità che ci contiene. Senza dèi e senza “aureole” improbabili ed estrinseche. Eppure, ecco quel totus venirci incontro in quella sua coerenza razionale che va da una causa, oscura, impenetrabile, inscalfibile, verso un epilogo perfetto e rigoroso. Se tutto al mondo è rigore e perfezione, ci chiediamo, perché proprio l’atto primario, aurorale dell’essere è invece monco di tali requisiti?. Ossia, perché esiste, vuole esistere, “spinge” per venire alla luce, così, incoerentemente, mentre tutto ciò che avviene di lì in poi è invece, per così dire, “ammantato” di coerenza logica?
… Non possiamo rispondere a una tale domanda. Ma possiamo azzardare questo: potremmo anche assegnare una necessità coerente al prima di quell’aurora. Potremmo anche supporre che in quella smania di sorgere si riponga un segreto tendere a destini diversi da quelli a nostra disposizione. Magari, la necessità coerente e razionale dell’impulso vitale non è l’essere per la morte (per dirla à la Heidegger). Cioè, la spinta iniziale che da avvio al ciclo vitale non coincide essenzialmente con il suo fatale epilogo: ciò che inizia non è ciò che poi finisce. Già, ma se è coerentemente razionale alla forza del suo imperio, dove va a finire quella sua oscura volontà? Cosa vuole davvero la vita? C’è forse una opzione segreta nel suo codice che inclina a una forma indefinita di adempimento? Qualcosa che sia coerente alla forza straordinaria che la chiama nel mondo? Qualcosa che sia conseguente al rigore perfetto della sua premessa? Qualcosa che naviga verso una forma sconosciuta di perfezione?.
Ecco dunque che diverrebbe possibile rispondere anche al quesito iniziale: la lotta della vita contro la natura non sarebbe altro che l’anelito della prima di imporsi sulla seconda (il “Dio che si sta facendo” di cui parla Borges). Quando la vita fosse, di stadio in stadio, pervenuta a quella perfezione, chissà, magari la natura si potrebbe dichiarare battuta, non essendo più in grado di ostacolarla e renderle… la vita impossibile.
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