Scritto da © Hjeronimus - Lun, 21/01/2013 - 14:18
Vivere è soffio, fuga, vapore. Vivere è stato come una comparsata sul film dell’essere, la coda di una cometa, un tenue, breve lampeggiare di poca luce sulla onnivora immensità delle tenebre abissali che c’incombono addosso. Siamo, e siamo stati, una fugace apparizione sull’orizzonte dell’essere, che non sappiamo cosa sia, da dove e verso dove muova. Già, cosa è l’essere… già solo questo, questa espressione “cosa è”, ci arrovescia immediatamente in una specie di differenza da quel “dove”, da quella ubicazione, come dire?, terrestre in cui il “dove” è esperito e tuttavia inafferrabile, incompenetrabile. Quindi, prima ancora di “chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo”, viene questo: cosa è?…
Non siamo materia, è certo. La materia non è che estensione, una posizione su un punto dato, che non può esser dato altro da ciò che è già, ed è quindi l’anello debole dei due poli, posizione, appunto, e velocità. Ma la velocità, che è forse lo spirito, rimanda a quel lucore fuggente della vita che ci fa apparire, ci fa rilucere, e subito ci offusca, ci ottenebra, ci oblia. Ecco, l’essere è come un sipario provvisorio che dischiude uno spiraglio di rivelazione, o di discernimento, sull’oblio cosmico del nulla. E l’oblio non è neanche l’oblio. Non è e basta.
Tutto ciò che è soggiace a questo rinvio a non esser più, e tutta la sfera dell’essere, tuttavia, rientra nella giurisdizione di quel soffio d’essere che ci è dato in sorte. Così, le due cose dissonano, entrano in conflitto. Da un lato, l’oblio nichilista del creato – perché in nessun modo madre-natura si affanna a dispensarci la più infinitesima speranza ontologica. Essa non mostra mai, in nessun “dove” (appunto), quello spiraglio che noi appunto le offriamo incarnandolo, e che lei invece avversa e disintegra raccordandoci, o prima o dopo, all’oblio della polvere cui ritorneremo. Ma d’altro canto, le cose che sono (ciò che è) non sono le cose che sono. Sono fenomeni, sono la posizione e la velocità e il nome che abbiamo loro imposto. L’essere non è nelle cose, ma in chi le vede e le nomina: l’universo non esiste; esiste un testimone davanti all’universo, come in un quadro di Friedrich, che lo fa esistere con il suo sguardo.
Perciò, se tutto l’essere di ogni santa cosa è raddensato nella testimonianza di una incarnazione (evidentemente, la mia), l’essere è breve, è soffio, è scintilla che luccica nella totale assenza. La quale, a quel tenue scintillio, prende corpo, si oggettivizza, s’illumina d’immenso…
Eccola perciò, la differenza fra l’essere ed il suo habitat: che la “cosa che è”, è tale soltanto nella riflessione d’essere in cui il secondo si specchia; e quest’ultimo è universalità indifferente e morta, deprivato della modalità di essere che soltanto il primo può assegnargli. Così, ciò che è, è perituro, finito, dis-universale. E l’universalità è in sé assenza, un silenzio di tenebra di cui non è neanche possibile affermare l’oscurità o la quiete. Perché il vuoto non ammette attributi: non essendo, non contempla concetto che lo assolva dalla sua votezza. L’universo è senza senso.
Non siamo materia, è certo. La materia non è che estensione, una posizione su un punto dato, che non può esser dato altro da ciò che è già, ed è quindi l’anello debole dei due poli, posizione, appunto, e velocità. Ma la velocità, che è forse lo spirito, rimanda a quel lucore fuggente della vita che ci fa apparire, ci fa rilucere, e subito ci offusca, ci ottenebra, ci oblia. Ecco, l’essere è come un sipario provvisorio che dischiude uno spiraglio di rivelazione, o di discernimento, sull’oblio cosmico del nulla. E l’oblio non è neanche l’oblio. Non è e basta.
Tutto ciò che è soggiace a questo rinvio a non esser più, e tutta la sfera dell’essere, tuttavia, rientra nella giurisdizione di quel soffio d’essere che ci è dato in sorte. Così, le due cose dissonano, entrano in conflitto. Da un lato, l’oblio nichilista del creato – perché in nessun modo madre-natura si affanna a dispensarci la più infinitesima speranza ontologica. Essa non mostra mai, in nessun “dove” (appunto), quello spiraglio che noi appunto le offriamo incarnandolo, e che lei invece avversa e disintegra raccordandoci, o prima o dopo, all’oblio della polvere cui ritorneremo. Ma d’altro canto, le cose che sono (ciò che è) non sono le cose che sono. Sono fenomeni, sono la posizione e la velocità e il nome che abbiamo loro imposto. L’essere non è nelle cose, ma in chi le vede e le nomina: l’universo non esiste; esiste un testimone davanti all’universo, come in un quadro di Friedrich, che lo fa esistere con il suo sguardo.
Perciò, se tutto l’essere di ogni santa cosa è raddensato nella testimonianza di una incarnazione (evidentemente, la mia), l’essere è breve, è soffio, è scintilla che luccica nella totale assenza. La quale, a quel tenue scintillio, prende corpo, si oggettivizza, s’illumina d’immenso…
Eccola perciò, la differenza fra l’essere ed il suo habitat: che la “cosa che è”, è tale soltanto nella riflessione d’essere in cui il secondo si specchia; e quest’ultimo è universalità indifferente e morta, deprivato della modalità di essere che soltanto il primo può assegnargli. Così, ciò che è, è perituro, finito, dis-universale. E l’universalità è in sé assenza, un silenzio di tenebra di cui non è neanche possibile affermare l’oscurità o la quiete. Perché il vuoto non ammette attributi: non essendo, non contempla concetto che lo assolva dalla sua votezza. L’universo è senza senso.
Una considerazione a latere della precedente è che infine l’essere coincide con il sapere di essere, ossia con quella particolare funzionalità della coscienza che vogliamo sia la autocoscienza. Un po’ sulla scia del famoso monito “conosci te stesso”, ciò getta luce anche sulla priorità attribuita da Lacan alla “fase dello specchio”, ove il soggetto si auto-determina come essente nella riflessione della sua propria effigie. Ora, la natura non sa di sé ed è quindi esclusa dall’essere, mentre la materia animata non arriva all’autocoscienza e quindi ignora l’essere. Quindi la sola determinazione possibile di “ciò che è” resta ancorata all’unica entità reificante, creazionale del mondo sensibile, cioè me stesso, l’unico creatore ammissibile del cielo e della terra.
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