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La notte

Di tutta la letteratura letta intorno al viaggio dentro l’incubo dei Campi, questo “La notte”, di Elie Wiesel, testimone bambino, o quasi, in prima persona ad Auschwitz, Birkenau, eccetera, è senz’altro il più spietato. Perché non lascia alcuno spiraglio al bene: il male è un incubo pneumatico, non ci passa niente dentro e dal suo interno il fuori è escluso, abolito. La soglia dell’inferno è soltanto una entrata.
Con un andamento cronachistico che si eleva talvolta su qualche vetta tragica, sia pure non all’altezza di Primo Levi, lo sguardo del giovane penetra dentro la bolla asfittica del male e ce la mostra nella sua inumana potenza. Senza speranze, senza palliativi, senza misericordia, esattamente fredda e pragmatica (il pragmatismo “industriale” dello sterminio) com’era. E non oppone sogni salvifici all’incubo infernale. L’incubo abbraccia per intero la creatura nella sua umanità e, come un Nosferatu forzato a nutrirsi, gliela aspira da dentro, per cacciar fuori da quell’ex-persona una specie di niente, di zero composto solo di fame e di paura. Così l’uomo s’imbestia, dentro, in una ritrazione all’animalità, ancora più bestiale che animale. E il Dio, la più radicale formazione etica dell’umano, decade tetramente, come una figurina ridicola, insufficiente a contenere, e a redimere, la immane catastrofe che permette.
Da quel viaggio nessuna resurrezione è possibile. Quando lo scrittore rimira nello specchio il proprio sguardo di cadavere ex-internato, percepisce che non dimenticherà mai più quella rifrazione, esattamente come il mostro dell’Estraneo” di Lovecraft.
E, a dirla esattamente come appare, è questa la “vetrina” perfetta del Lager. Una bottega degli orrori da cui erompe un fiume di cadaveri, ove distinguere tra vivi e morti, tra bene e male, tra bestia ed essere, non è solo improbo: è pura follia. Una follia morale, specchiata qui nel proprio contrario e perciò stesso, nel ricantarsi la filastrocca delle “magnifiche sorti” del mondo e di conseguenza della impossibilità di cose come Auschwitz, o anche Hiroshima, e negando quindi davanti a quelle povere larve scampate al disastro la realtà, cioè la possibilità, della perversa utopia alla quale sopravvivevano; finisce per somigliargli. Finisce cioè per fargli da controaltare dialettico, da “sponda”, ove, per inneggiare al Bene, si chiama in causa appunto il suo contrario, rendendolo possibile… Perciò dico: meglio il disincanto, o se si vuole, la spietatezza di questo racconto, in cui la morale è bandita, il Dio è morto e la speranza non esiste.
 
 
 

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