Scritto da © Hjeronimus - Mer, 12/02/2014 - 21:48
1) Alla luce della nostra moderna ragione, è evidente che non c’è, non può esistere nessuna ideologia redentrice da applicarsi alla salvazione del genere umano. Chi assume l’ideologia a tal uopo crea inconsapevolmente i presupposti di una schiavitù sulla base ideale di una liberazione. Noi abbiamo un solo strumento per salvarci, e questo, nota bene, è rimasto sempre lì, a disposizione di chi volesse servirsene. È la logica. La logica, sì, quell’apparato ineluttabile che, come è anche in natura, muove da qualsivoglia premessa verso una, o più, indefettibile conseguenza. Certo, da una premessa astratta è poco agevole trarre l’esatta conseguenza, ecco perché oggetti come il diritto, per esempio, possono essere ribaltati, travisati, raggirati, a tutto profitto di chi se ne serve senza premure. Eppure, pur piegando la logica a un interesse particolare, si finisce per sviarla dal suo buon esito, essa diviene irrazionale e, prima o dopo, si manifesta come danno, come falla sul tessuto che si intendeva imbastire.
Vi sono, vi sono state, epoche in cui la logica suscitava un’attenzione particolare nelle menti e nelle fantasticherie umani. Epoche in cui l’ingegno veniva in auge, portando il livello del contraddittorio politico e culturale su un piano dialettico, dove la logica poteva ispirare le mode e gli eventi di “grido”. Altri momenti in cui invece veniva a noia e gli si preferiva l’azione, l’audacia, la forza. Ciò che non decadeva mai, in ogni circostanza, era quel rigore, per il quale, se si agiva su spinta emotiva o ambizione di potere, si agiva comunque contro logica, e quindi alla fine contro se stessi. Così, anche fuori moda, la logica continuò per sempre a contrapporsi al torto dalla parte giusta.
Ecco, quella corrente è un’epoca di questo tipo.Il logos non è più intrigante, non affascina. Gli si antepongono le soluzioni facili, i percorsi più brevi. Il contraddittorio logico morale non incanta più nessuno. Nessun Settembrini trarrebbe più interesse e passione a contrapporsi a un Naphta. Ciò che latita alla base è, non l’intelligenza, ma la sua necessità. In una cosmologia “video” l’intelligenza non serve più a niente. Gli si preferisce la morale qualunque, il pensiero qualunque, l’opinione precotta di un qualunque “strillone” dell’agorà video, di qualsiasi video si tratti. La logica resta ingabbiata nei libri, e qualcuno ricomincia a odiarli, i libri, come il Terzo Reich. Il torto avanza, un’ondata gigantesca di semplicismo ossificato travolge ogni senso di costruzione, e la decostruzione appare come il sogno meraviglioso di un sognare inferiore, che si ripromette meno di ciò di cui già dispone. Meno libertà, soprattutto. Di modo che l’esercizio della logica prende il nome denigratorio di “buonismo” (parola logicamente inaccessibile) e quello del suo sprovveduto contrario il nome di “populismo”. Cosi che in assenza di un sentiero di intelligenza si opta per la via della forza più immediata e remunerativa, la vox populi. Ossia quella di avallare qualsiasi bestialità urlata dalla piazza pur di farsene eleggere l’ambasciatore, cioè, pur di aggrinfiare il potere.
Ma anche in tale cupa decadenza la logica continua a seguire il suo corso. Non basta rifiutarla, non basta eluderla e fingere che non ci sia una cosa come la logica. Essa agisce in incognito, per così dire, e trascina con dura e invincibile conseguenzialità tutti coloro che la sottostimano, inconsapevoli o manigoldi che siano, davanti alle proprie responsabilità e di norma in modo tragico.
Così, chi dileggia la logica, o la snobba, non sa di preparare il terreno del proprio tramonto, un terreno in cui scavare la propria fossa.
Se riandiamo con la fantasticheria a uno come Adorno, nome sepolto sotto una catasta di altre configurazioni e altre contingenze storiche, annotiamo come sia demodé appellarsi a lui, mentre nei “favolosi” anni ’60 non si faceva altro che citarlo. Eppure, se qualcuno si prendesse la briga, oramai antiquata, di rendersi appetibili i suoi vaticini, si renderebbe conto che ciò che gli sta accadendo, e che gli rende Adorno incompatibile, sta proprio nella sua ansia di sottrarsi alla propria realtà, così ben individuata da Adorno.
Alla generazione che si sta affacciando sul mondo adesso non gliene frega un accidenti di cose come il sapere, o l’intelligenza. Si può anche capire. La sua maggiore preoccupazione è quella di costruirsi un domani qualsiasi, purché si sopravviva. Si aspetta il buio, le tenebre, e una lotta senza quartiere per viverci dentro, possibilmente illesa. Ma questa disattenzione verso la logica, che procede comunque impassibile alle sue fatali soluzioni, attrae le prossime generazioni in una trappola grandiosa in cui scivolare inconsapevolmente fino alla catastrofe. Una specie di Black-hole inconscio dove il rimosso, compresso fin a far male, scaricherà le sue idiosincrasie in un tutt’uno di disonore, umiliazione e rimorso. La dissoluzione di un mondo intero che non ha saputo, o voluto, tirare le sintesi delle proprie disgreganti contraddizioni, si allargherà come una immensa macchia di sangue che "toute l’eau de la mer ne suffirait pas à laver". .
2) Sui contrari.
Prendiamo in considerazione i doppioni, o le coppie, che configurano i contrari. Ciò che è postulato in ogni coppia di contrari trova un suo punto assiale e collassale nella propria denominazione. Così, se diciamo per esempio che uno è coraggioso, fatalmente viene chiamato a complemento il contrario: è coraggioso perché, o in quanto, non è codardo. Questa unità, come ben visto da Hegel, è incontrovertibile alla nostra condizione. Siamo dotati di linguaggio e questo altro non può essere che dialettico ed è dialettico ciò che chiama il proprio contrario a sé, al fine di escluderlo. Così, se non avessi il concetto di “codardo”, mi diverrebbe impossibile capire il coraggio del coraggioso. Tutto ciò non “fa” linguaggio da sé. Concerne bensì una condizione di esistenza che è dialettica di suo: non disporremmo di un linguaggio se non ci fosse “esistenza” dietro. E questo vuol dire che è la stessa condizione dell’esistenza, l’esserci, a coincidere con la dialettica. La dialettica è la conditio sine qua non della strana fauna terrestre. Persino il ragionamento extra-linguistico di un primate ha alcunché di dialettico, altrimenti neanche un gattino, o una scimmia, distinguerebbe tra ciò che gli nuoce e ciò che gli giova.
L’apice discriminante è il più intrigante. Il momento della collisione tra i due contrari, ossia, per noi, il momento nominale, fa “esplodere” la loro antitesi mettendo in luce il senso della loro dissonanza nella prospettiva della superiore unità che li accomuna. E siccome diremo che ciò è molto umano, giungeremo alla conclusione che, così come la chiamata in “correità” verbale della propria antitesi da parte del nome, così altrettanto si muove all’interno della nostra costellazione psichica il treno del senso e dei sentimenti. Di modo che, pur non categoricamente, presumeremo che il coraggioso ed il pauroso siano un po’ la stessa persona.
Ciò che chiamiamo “ambivalenza emotiva”, insomma, è qualcosa di consentaneo, di radicale alla condizione della vita in generale e fa capo ad una certa struttura dialettica dello stesso creato, secondo cui, noi, suoi creaturali coefficienti, non potremmo svilupparci altro che così come siamo, ossia secondo la geometria impeccabile ed ineffabile della logica, l’”etica more geometrico” di Spinoza.
Questo implica un’altra riprova della dominante della logica sull’universo-mondo. Per quanto ci è dato poter osservare, la logica, il sistema “causa-effetto”, o “premessa-conseguenza”, resta alla base di ogni possibile speculazione su ciò che siamo, almeno al livello dei rapporti e delle connessioni possibili. Opporsi alla logica, in queste condizioni, in questo dato mondo, è impossibile. Anche se spesso e volentieri accade. E quando, come pure sta succedendo, essa cade in disgrazia, e le viene invece anteposto, magari, l’”atto di forza”, non vuol dire che la logica abbia perso la sua interazione con la realtà, ma al contrario (!) che sono gli umani protagonisti ad aver obliato sia l’una che l‘altra, logica e realtà. Un oblio che non può in nessun modo impedire o fuorviare il processo logico, ma che, iniettandovi il veleno della contraddizione, non può che trascinarlo ineluttabilmente alla tragedia.
Vi sono, vi sono state, epoche in cui la logica suscitava un’attenzione particolare nelle menti e nelle fantasticherie umani. Epoche in cui l’ingegno veniva in auge, portando il livello del contraddittorio politico e culturale su un piano dialettico, dove la logica poteva ispirare le mode e gli eventi di “grido”. Altri momenti in cui invece veniva a noia e gli si preferiva l’azione, l’audacia, la forza. Ciò che non decadeva mai, in ogni circostanza, era quel rigore, per il quale, se si agiva su spinta emotiva o ambizione di potere, si agiva comunque contro logica, e quindi alla fine contro se stessi. Così, anche fuori moda, la logica continuò per sempre a contrapporsi al torto dalla parte giusta.
Ecco, quella corrente è un’epoca di questo tipo.Il logos non è più intrigante, non affascina. Gli si antepongono le soluzioni facili, i percorsi più brevi. Il contraddittorio logico morale non incanta più nessuno. Nessun Settembrini trarrebbe più interesse e passione a contrapporsi a un Naphta. Ciò che latita alla base è, non l’intelligenza, ma la sua necessità. In una cosmologia “video” l’intelligenza non serve più a niente. Gli si preferisce la morale qualunque, il pensiero qualunque, l’opinione precotta di un qualunque “strillone” dell’agorà video, di qualsiasi video si tratti. La logica resta ingabbiata nei libri, e qualcuno ricomincia a odiarli, i libri, come il Terzo Reich. Il torto avanza, un’ondata gigantesca di semplicismo ossificato travolge ogni senso di costruzione, e la decostruzione appare come il sogno meraviglioso di un sognare inferiore, che si ripromette meno di ciò di cui già dispone. Meno libertà, soprattutto. Di modo che l’esercizio della logica prende il nome denigratorio di “buonismo” (parola logicamente inaccessibile) e quello del suo sprovveduto contrario il nome di “populismo”. Cosi che in assenza di un sentiero di intelligenza si opta per la via della forza più immediata e remunerativa, la vox populi. Ossia quella di avallare qualsiasi bestialità urlata dalla piazza pur di farsene eleggere l’ambasciatore, cioè, pur di aggrinfiare il potere.
Ma anche in tale cupa decadenza la logica continua a seguire il suo corso. Non basta rifiutarla, non basta eluderla e fingere che non ci sia una cosa come la logica. Essa agisce in incognito, per così dire, e trascina con dura e invincibile conseguenzialità tutti coloro che la sottostimano, inconsapevoli o manigoldi che siano, davanti alle proprie responsabilità e di norma in modo tragico.
Così, chi dileggia la logica, o la snobba, non sa di preparare il terreno del proprio tramonto, un terreno in cui scavare la propria fossa.
Se riandiamo con la fantasticheria a uno come Adorno, nome sepolto sotto una catasta di altre configurazioni e altre contingenze storiche, annotiamo come sia demodé appellarsi a lui, mentre nei “favolosi” anni ’60 non si faceva altro che citarlo. Eppure, se qualcuno si prendesse la briga, oramai antiquata, di rendersi appetibili i suoi vaticini, si renderebbe conto che ciò che gli sta accadendo, e che gli rende Adorno incompatibile, sta proprio nella sua ansia di sottrarsi alla propria realtà, così ben individuata da Adorno.
Alla generazione che si sta affacciando sul mondo adesso non gliene frega un accidenti di cose come il sapere, o l’intelligenza. Si può anche capire. La sua maggiore preoccupazione è quella di costruirsi un domani qualsiasi, purché si sopravviva. Si aspetta il buio, le tenebre, e una lotta senza quartiere per viverci dentro, possibilmente illesa. Ma questa disattenzione verso la logica, che procede comunque impassibile alle sue fatali soluzioni, attrae le prossime generazioni in una trappola grandiosa in cui scivolare inconsapevolmente fino alla catastrofe. Una specie di Black-hole inconscio dove il rimosso, compresso fin a far male, scaricherà le sue idiosincrasie in un tutt’uno di disonore, umiliazione e rimorso. La dissoluzione di un mondo intero che non ha saputo, o voluto, tirare le sintesi delle proprie disgreganti contraddizioni, si allargherà come una immensa macchia di sangue che "toute l’eau de la mer ne suffirait pas à laver". .
2) Sui contrari.
Prendiamo in considerazione i doppioni, o le coppie, che configurano i contrari. Ciò che è postulato in ogni coppia di contrari trova un suo punto assiale e collassale nella propria denominazione. Così, se diciamo per esempio che uno è coraggioso, fatalmente viene chiamato a complemento il contrario: è coraggioso perché, o in quanto, non è codardo. Questa unità, come ben visto da Hegel, è incontrovertibile alla nostra condizione. Siamo dotati di linguaggio e questo altro non può essere che dialettico ed è dialettico ciò che chiama il proprio contrario a sé, al fine di escluderlo. Così, se non avessi il concetto di “codardo”, mi diverrebbe impossibile capire il coraggio del coraggioso. Tutto ciò non “fa” linguaggio da sé. Concerne bensì una condizione di esistenza che è dialettica di suo: non disporremmo di un linguaggio se non ci fosse “esistenza” dietro. E questo vuol dire che è la stessa condizione dell’esistenza, l’esserci, a coincidere con la dialettica. La dialettica è la conditio sine qua non della strana fauna terrestre. Persino il ragionamento extra-linguistico di un primate ha alcunché di dialettico, altrimenti neanche un gattino, o una scimmia, distinguerebbe tra ciò che gli nuoce e ciò che gli giova.
L’apice discriminante è il più intrigante. Il momento della collisione tra i due contrari, ossia, per noi, il momento nominale, fa “esplodere” la loro antitesi mettendo in luce il senso della loro dissonanza nella prospettiva della superiore unità che li accomuna. E siccome diremo che ciò è molto umano, giungeremo alla conclusione che, così come la chiamata in “correità” verbale della propria antitesi da parte del nome, così altrettanto si muove all’interno della nostra costellazione psichica il treno del senso e dei sentimenti. Di modo che, pur non categoricamente, presumeremo che il coraggioso ed il pauroso siano un po’ la stessa persona.
Ciò che chiamiamo “ambivalenza emotiva”, insomma, è qualcosa di consentaneo, di radicale alla condizione della vita in generale e fa capo ad una certa struttura dialettica dello stesso creato, secondo cui, noi, suoi creaturali coefficienti, non potremmo svilupparci altro che così come siamo, ossia secondo la geometria impeccabile ed ineffabile della logica, l’”etica more geometrico” di Spinoza.
Questo implica un’altra riprova della dominante della logica sull’universo-mondo. Per quanto ci è dato poter osservare, la logica, il sistema “causa-effetto”, o “premessa-conseguenza”, resta alla base di ogni possibile speculazione su ciò che siamo, almeno al livello dei rapporti e delle connessioni possibili. Opporsi alla logica, in queste condizioni, in questo dato mondo, è impossibile. Anche se spesso e volentieri accade. E quando, come pure sta succedendo, essa cade in disgrazia, e le viene invece anteposto, magari, l’”atto di forza”, non vuol dire che la logica abbia perso la sua interazione con la realtà, ma al contrario (!) che sono gli umani protagonisti ad aver obliato sia l’una che l‘altra, logica e realtà. Un oblio che non può in nessun modo impedire o fuorviare il processo logico, ma che, iniettandovi il veleno della contraddizione, non può che trascinarlo ineluttabilmente alla tragedia.
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