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La grande bassezza

Roma. La grande bellezza. Roma abusata, derubata, “sanguisugata” da orde di cavallette indigene e d’importazione. Roma imperiale. Caput Mundi, baricentro cosmico del creato e del creatore. Roma turpe, degenerata, indifferente. Immensa prateria di cemento, screziata dal formicolio incessante, ossessivo, ronzante della schizofrenia veicolante che brancola in giro su se stessa. Con dentro, al cuore, la sua straziata e straziante beltà … Come corvi, come arpie, tutta l’umanità si precipita da millenni sul suo cadavere, a vedere se non si riesce ancora a cavare qualche stilla dorata, da rivendere subito a chissenefrega chi. Tutti dentro, 4/5/6 milioni di vampiri assolutamente inconsapevoli del valore e della bellezza, con nella zucca soltanto l’avidità degli sciacalli. E poi, qualche decina di anime buone che l’amano ancora, nonostante tutto, ma che tendono lenti ma inesorabili al distacco...
Chi ti ha amato davvero, capitale stracciona e  vertice del fasto barocco? Chi, escludendo gli antichi, da mille, duemila anni, si è veramente preso cura di te, con amore e con rigore? Vogliamo dirlo? Solo i Papi. Sì, proprio solo questa genia di uomini corrotti, spudorati, reazionari, attaccati alla pecunia e indifferenti verso i loro stessi Cristi, che sovente hanno abiurato nei fatti, fingendo di onorarli. Ammettiamo pure che non tutti fossero corrotti e spudorati, ma di massima è questo lo specchio morale di santa madre chiesa, quello della corruzione, del vizio, del potere. Eppure, che grandezza non scaturisce dai loro atti di deferenza, meticolosi e assidui, verso il “trono” del loro potere, la loro imperiale residenza, il loro spicchio di paradiso ritagliato in terra. Roma, la porta dello splendore.
Ma l’amministrazione laica della città è stata subito disastrosa. A muovere dai Savoia, che han lasciato dietro sé i due più raffazzonati, sovraccarichi, “sventranti” interventi monumentali sul centro storico, ossia il “Palazzaccio” e la “Macchina da scrivere”, rispettivamente, palazzo di giustizia e monumento a Vittorio Emanuele (o “Vittoriano”, o, oggi, monumento al milite ignoto). E si sono prodigati a far edificare quartieri “torinesi”, come il quartiere “Prati”, in sé neanche spregevole, ma orbatamente girato in contro-prospettiva con l’odiata sede pontificia. Cioè, con una serie di lunghe Avenue perpendicolari alla francese, tutte girate contro l’oggetto più straordinario dello skyline cittadino: la meravigliosa cupola di Michelangelo. Da nessuna di quelle interminabili prospettive è concessa la vista di quella meraviglia, a pochi passi da San Pietro … Dal che si evince l’ottusità della volontà retrostante: da un lato crede di poter osare mettersi in competizione con gli antichi, piazzando i propri giganteschi sgorbi monumentali proprio nel bel mezzo della città archeologica; dall’altro, concepisce la bellezza michelangiolesca della cupola come, e solo come,  un simbolo del potere vaticano, quindi da avversare, senza fare la minima differenza culturale tra passato e presente. E strappando così per sempre agli abitanti il godimento di quella vista maestosa.
Se proseguissimo su questa strada, troveremmo le incredibili offese del fascismo alla città imperiale cui cianciava di ispirarsi (via della Conciliazione, per esempio). Nonché lo “squartamento” ancora più devastante e minuzioso seguito alle “mani sulla città” democristiane: mezzo secolo di stupro affaristico, nelle grinfie di palazzinari violentatori e speculatori dall’intelligenza muffita e la cupidigia invece lussureggiante.
Così, l’incomparabile “Gerusalemme Celeste” ereditata dai Papi si vede ora affossata in mezzo a un oceano di cemento, qua e là potabile, ma per lo più abominevole. Col sovrapprezzo della dimenticanza, dell’abbandono, della superficialità degli scalda-poltrone scervellati, affamati di un potere che non sono neanche all’altezza di esercitare. E farò il seguente esempio per mettere a confronto la oculata e colta attenzione del “potere temporale” della Curia, con la scellerata infingardaggine di quelli venuti dopo.
Nel regno di mezzo tra la scomparsa del grande Michelangelo e l’apparizione dei luminari del Barocco, Caravaggio e Bernini in primis, l’urbe ferveva di attivismo febbrile. Si dava avvio a grandi riassetti della viabilità cittadina, segnatamente in relazione all’afflusso sempre più incessante dei pellegrini. Si costituivano i grandi “tridenti” viabili, forchette di strade a tre, pensate scenograficamente come accessi teatrali ai luoghi più significativi, o importanti della città. Per esempio, onde far confluire i pellegrini ad un punto di raccolta nei pressi di San Pietro, identificato nella oramai irreperibile Piazza di Ponte, dal lato opposto al Castel Sant’Angelo, il cui odierno mozzicone non è che un transito soffocante per il traffico sul Lungotevere, si costituirono tre lunghi rettilinei che ve li incanalassero senza fargli perdere l’orientamento. Uno di questi è la via Giulia, uno splendido chilometro e passa di palazzi grandiosi e residenze incomparabili. E proprio dentro queste ultime si troveranno i “cimeli” di un’arte senza tempo, che non s’era addormentata dopo Michelangelo, ma che appunto l’incuria e la cecità degli ignavi installati al Campidoglio ha lasciato cadere in dimenticanza. A parte le pochissime persone colte che pure ci sono qua e là, sembra che nessuno si renda conto della incredibile qualità e quantità di quel lasso di tempo. Artisti eccellenti, che operanti altrove avrebbero certamente trovato un favore più consono, sono qui oscuramente presenti, spalla a spalla, in una concentrazione ineguagliabile di affreschi, architetture, pale d’altare, stucchi, statue e via dicendo. Nomi semi-sconsciuti di artisti incomparabili si susseguono senza tregua: da Giulio Romano, ai Nebbia, al Perin Del Vaga, a Salviati, a Taddeo Zuccari e suo fratello, al grande Daniele da Volterra, al Tempesta e così via. Sono i Manieristi romani, una cerchia di artisti che vissuti altrove farebbero la gloria di chiunque e che invece a Roma, Caput Mundi, sono dimenticati. Ebbene, vi sono chiese, oratori e cappelle interamente affrescati da questi signori del pennello che non si possono dimenticare. E che i loro committenti, dall’occhio fino e colto, apprezzavano appunto alla pari del loro padre simbolico, Michelangelo. E che l’odierno qualunquismo relega invece alle “eventuali”, se vi resta un po’ di tempo. Un’ultima parola sul Caravaggio: in questi ultimi vent’anni si saranno viste a Roma una ventina di mostre su Caravaggio, un artista che è godibile pressoché dappertutto nelle chiese e nei musei cittadini. Che senso ha, se non il senso venale di attrarre col nome famoso quanti più avventori di bocca buona possibile, privilegiare in un modo così assurdo solo uno, sia pure il più grande, tra una schiera così numerosa di enormi personalità, dimenticando tutto il resto? Che senso ha non far vedere la costellazione ineffabile di una intera civiltà artistica, perché una sola stella brilla un po’ di più?
E lasciarla lì, da sola, a brillare per tutti, senza concedere neanche di poter intravedere l’intera galassia? Non lo so, mi è incomprensibile, salvo appunto che per quel vizietto particolare delle nostre “laiche” amministrazioni: l’analfabetismo …
 

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