Scritto da © Hjeronimus - Sab, 22/09/2012 - 20:50
Va da sé che l’estetica si manifesti come rappresentazione dei valori considerati sommi al momento della loro “trans-figurazione”, per così dire, nelle arti. Questa rappresentazione non è necessariamente spaziale, al contrario essa si articola attraversando le epoche e rispecchiandone tendenze e concezioni che, talora, divergono necessariamente dalla percezione ottico-paesaggistica, e cioè spaziale, della modalità sensibile cui pure si riferiscono: il vedere. Questo, non soltanto può svincolarsi dal concetto spaziale, ma addirittura opporvisi. Alludendo quasi ad uno spazio altro, ad un altrove differente e magari liberatorio rispetto a quello toccatoci in sorte. Avevamo già accennato alla innecessarietà in epoca alto-medioevale di valori realistici che elogiassero la condizione umana – una condizione calata nell’angoscia e che non esprimeva alcunché da essere magnificato. Tutta la “gloria” che la vita terrena non meritava, veniva di conseguenza traslatata in una vita celeste, in una maestà ultraterrena che avrebbe riscattato l’angosciosa miseria dell’”aldiquà”.
Il concetto di realtà dell’alto-medioevo è quindi assai negletto e ininfluente al corso e ai destini della vita quotidiana. Gli uomini di allora sembrano piuttosto rifugiarsi in una specie di “caverna cosmica” in cui gli eventi e le loro connessioni assumono un aspetto soltanto simbolico, lungi anni-luce da un interesse concreto e obbiettivo verso la realtà. Il loro era un mondo magico, in cui contavano solo gli aspetti leggendari, taumaturgici, trascendentali dell’accadere e ove non si muove foglia che non sia segno e inferenza del sovrannaturale sulla miseria del mondo.
Da tali premesse, la sfera della rappresentazione trae un ascendente consentaneo. Poggiando ancora per secoli sull’archetipo concettuale dei Romani, in cui lo spazio era considerato un vuoto niente e non veniva neanche presagito in scene e figure che eran pure realistiche e spazialistiche (e che perciò apparivano così “chimeriche”, solinghe e remote, come ben notato da Panofsky), gli artisti dell’alto-medioevo avevano abolito lo spazio definitivamente, convertendo il vuoto niente dei Romani in una totalità opulenta e simbolica il cui “pieno” strabocchevole poteva riferirsi alla pienezza paradisiaca, e in quel caso era pieno d’oro (per associazione valoriale), ovvero al supplizio infernale, pieno di fiamme.
Ad ogni buon conto, sia per quanto sta all’arte bizantina, massime mosaicale, che per ciò che attiene all’affresco e alla miniatura romaniche, il discorso dello spazio è una “non-cosa”. Le immagini appaiono totalmente campite e l’episodio raccontato risalta nel suo “tutto” privo di ambiente. La cornice dell’immagine coincide con tale racconto e di massima non si percepisce alcun orpello di tipo “spaziale” che non rientri nella logica simbolica del medesimo. Non c’è alcun bisogno della realtà: l’apparenza è morale, non naturale. E d’altronde, là fuori, la natura è ostile ed è ricettacolo di briganti e di bestie feroci. Non è ancora quella del famoso:
Laudato sii, o mio Signore,
per tutte le tue creature…
E allora, da dove insorge il bisogno di realismo, da dove scaturisce la valorizzazione di uno spazio reale e umano in cui una teleologia si apra e si disponga a gettare nuova luce sul mondo e sull’umanità?!
Siamo soliti ricondurre l’idea dell’umanesimo al periodo tardo-rinascimentale, e collocarla tra le arcadie e i circoli neo-platonici della seconda metà del ‘400 e gli albori del secolo successivo. Gli stessi titoli di Umanesimo e Neo-platonismo sembrano raccordarci ai grandi di quel secolo d’oro, da Michelangelo a Pico Della Mirandola; da Leon Battista Alberti a Marsilio Ficino. E ci sembra evidente e dovuto riconnettere a quel Rinascimento (che i protagonisti chiamavano Rinascenza) la grande alba della scienza e la grandiosa genesi occidentale del Moderno. È stata anche immaginata la cospicua fioritura del Rinascimento come l’esito vittorioso della congiunzione di due coordinate incrociate, quella della fusione-contaminazione della tradizione filosofica greco-romana con quella della scolastica cristiana, incrociata alla osmosi antropologica del ceppo germanico con quello latino (più altre componenti etniche, dai Celti agli Slavi), tutto unificato dal comune denominatore: il latino come lingua della scienza.
Ma per rintracciare i fondamenti di un sentire umanistico, che sarà poi di sprone all’Umanesimo classico, dobbiamo risalire la china di secoli, e andare a spulciare laggiù, ove l’amore e la gioia di vivere avevano ritrovato fra gli uomini un senso e una storia. E questo avvenne quando Parigi diventò brevemente Atene e le sue università e le sue scuole, massime teologiche, divennero i centri di una ritrovata vitalità artistica, culturale ed esistenziale. Il tempo dei Goliardi, dei Carmina Burana, della esaltazione del rinnovato valore dei piaceri, dopo i secoli tenebrosi dell’angoscia analfabeta e apotropaica. È da questo clima, dall’amore positivo, intellettuale, permeato di una religione di vita, e dal fervore della resurrezione della logica, da Anselmo ad Abelardo, che il mondo delle immagini muove alla conquista dello spazio e l’occhio incomincia a intravedere, in luogo dell’allucinazione mistica di un aurato cielo alieno, di un’alterità “felice” e franca dall’angoscia dell’essere, la vita reale come auspicabile.
E se il mondo torna fertile e godibile, l’immagine del mondo, la sua icastica, riconquista un’idea di bellezza che rende necessaria la rappresentazione del reale come referente del principio di valore, e non l’astrazione da quello come sublime contro-valore da contrapporgli. Entra in gioco lo spazio della rappresentazione: l’immagine artistica si cangia in riproduzione del senso del vedere e, come una finestra, si apre sullo scenario della bellezza terrena, spaziale, ambientale. Si apre, non: si chiude in un lusso asfittico e celeste. Vuol essere finestra, appunto, luce sul mondo, riproduzione del vedere: è l’alba della mimesis.
Il concetto di realtà dell’alto-medioevo è quindi assai negletto e ininfluente al corso e ai destini della vita quotidiana. Gli uomini di allora sembrano piuttosto rifugiarsi in una specie di “caverna cosmica” in cui gli eventi e le loro connessioni assumono un aspetto soltanto simbolico, lungi anni-luce da un interesse concreto e obbiettivo verso la realtà. Il loro era un mondo magico, in cui contavano solo gli aspetti leggendari, taumaturgici, trascendentali dell’accadere e ove non si muove foglia che non sia segno e inferenza del sovrannaturale sulla miseria del mondo.
Da tali premesse, la sfera della rappresentazione trae un ascendente consentaneo. Poggiando ancora per secoli sull’archetipo concettuale dei Romani, in cui lo spazio era considerato un vuoto niente e non veniva neanche presagito in scene e figure che eran pure realistiche e spazialistiche (e che perciò apparivano così “chimeriche”, solinghe e remote, come ben notato da Panofsky), gli artisti dell’alto-medioevo avevano abolito lo spazio definitivamente, convertendo il vuoto niente dei Romani in una totalità opulenta e simbolica il cui “pieno” strabocchevole poteva riferirsi alla pienezza paradisiaca, e in quel caso era pieno d’oro (per associazione valoriale), ovvero al supplizio infernale, pieno di fiamme.
Ad ogni buon conto, sia per quanto sta all’arte bizantina, massime mosaicale, che per ciò che attiene all’affresco e alla miniatura romaniche, il discorso dello spazio è una “non-cosa”. Le immagini appaiono totalmente campite e l’episodio raccontato risalta nel suo “tutto” privo di ambiente. La cornice dell’immagine coincide con tale racconto e di massima non si percepisce alcun orpello di tipo “spaziale” che non rientri nella logica simbolica del medesimo. Non c’è alcun bisogno della realtà: l’apparenza è morale, non naturale. E d’altronde, là fuori, la natura è ostile ed è ricettacolo di briganti e di bestie feroci. Non è ancora quella del famoso:
Laudato sii, o mio Signore,
per tutte le tue creature…
E allora, da dove insorge il bisogno di realismo, da dove scaturisce la valorizzazione di uno spazio reale e umano in cui una teleologia si apra e si disponga a gettare nuova luce sul mondo e sull’umanità?!
Siamo soliti ricondurre l’idea dell’umanesimo al periodo tardo-rinascimentale, e collocarla tra le arcadie e i circoli neo-platonici della seconda metà del ‘400 e gli albori del secolo successivo. Gli stessi titoli di Umanesimo e Neo-platonismo sembrano raccordarci ai grandi di quel secolo d’oro, da Michelangelo a Pico Della Mirandola; da Leon Battista Alberti a Marsilio Ficino. E ci sembra evidente e dovuto riconnettere a quel Rinascimento (che i protagonisti chiamavano Rinascenza) la grande alba della scienza e la grandiosa genesi occidentale del Moderno. È stata anche immaginata la cospicua fioritura del Rinascimento come l’esito vittorioso della congiunzione di due coordinate incrociate, quella della fusione-contaminazione della tradizione filosofica greco-romana con quella della scolastica cristiana, incrociata alla osmosi antropologica del ceppo germanico con quello latino (più altre componenti etniche, dai Celti agli Slavi), tutto unificato dal comune denominatore: il latino come lingua della scienza.
Ma per rintracciare i fondamenti di un sentire umanistico, che sarà poi di sprone all’Umanesimo classico, dobbiamo risalire la china di secoli, e andare a spulciare laggiù, ove l’amore e la gioia di vivere avevano ritrovato fra gli uomini un senso e una storia. E questo avvenne quando Parigi diventò brevemente Atene e le sue università e le sue scuole, massime teologiche, divennero i centri di una ritrovata vitalità artistica, culturale ed esistenziale. Il tempo dei Goliardi, dei Carmina Burana, della esaltazione del rinnovato valore dei piaceri, dopo i secoli tenebrosi dell’angoscia analfabeta e apotropaica. È da questo clima, dall’amore positivo, intellettuale, permeato di una religione di vita, e dal fervore della resurrezione della logica, da Anselmo ad Abelardo, che il mondo delle immagini muove alla conquista dello spazio e l’occhio incomincia a intravedere, in luogo dell’allucinazione mistica di un aurato cielo alieno, di un’alterità “felice” e franca dall’angoscia dell’essere, la vita reale come auspicabile.
E se il mondo torna fertile e godibile, l’immagine del mondo, la sua icastica, riconquista un’idea di bellezza che rende necessaria la rappresentazione del reale come referente del principio di valore, e non l’astrazione da quello come sublime contro-valore da contrapporgli. Entra in gioco lo spazio della rappresentazione: l’immagine artistica si cangia in riproduzione del senso del vedere e, come una finestra, si apre sullo scenario della bellezza terrena, spaziale, ambientale. Si apre, non: si chiude in un lusso asfittico e celeste. Vuol essere finestra, appunto, luce sul mondo, riproduzione del vedere: è l’alba della mimesis.
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