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Il cadavere morto

Kasper wanderava stilligoso denkando alleino im la walde.
Ossia, Kasper vagabondava in silenzio, meditando solitario nella selva: questo rimuginava Kasper pensando a se stesso e nel suo strano “esperanto” maccheronico-altomedioevale, completamente inventato. Seguiva oramai a memoria la linea delle curve del fiume, che s’insinuavano in gole dirupate, sfilacciate ai bordi dalle lente capigliature della boscaglia, come lingue filiformi gettate nell’acqua a dissetarsi. Lui stesso si identificava con quel sinuoso rimontare del sentiero inverso il cadere dell’acqua, come facesse parte del paesaggio e quelle anse e quei dirupi fossero nient’altro che gli spigoli della sua anima. Un’anima curiosa guardinga esuberante, ma che da qualche tempo indulgeva a una certa spossatezza, a una sorta di avvisaglia di estenuazione, come l’aroma di certi fiori troppo maturi.
Quand’ecco che ti vede un giaccone, un giaccone nero, simile a quelli che lui indossa di sovente, appeso a un ramo inclinato sull’acqua, e fradicio e aggrinzito dal bagnato. Così che pensa: - Ehilà, giacca trascinata dall’acqua e appesa a un ramo, più la pioggia dei giorni trascorsi, uguale annegato. – Quindi si rivolge al cane e gli fa: - Andiamo alla ricerca del cadavere morto. – E cammina cammina… ma anche scrutando a fondo in quella murmure liquida non avvista alcunché e se ne torna da dove è venuto, coi suoi pensieri con dentro quella veste fradicia impiccata al ramo morto, sopra lo sciabordare gelido e indifferente del fiume. 
Nei giorni avvenire Kasper fece e rifece, come d’abitudine, quel sentiero di curve addossate a quelle del corso d’acqua. Nella sua fantasticheria incrociava ancora  quella figura del “cadavere morto”, più come metafora, o come capriccio, che come una reale aspettativa. Cioè a dire che davvero non attribuiva una salma al giaccone “annegato” e quella icona del “cadavere morto” era penetrata nella sua testa come una cantilena, uno spiritoso intercalare nel bel mezzo delle sue cogitazioni. Per giorni e giorni ripeté al suo cane di cercarlo, di trovarlo il “cadavere morto”, onde istigarlo al gioco e spronarlo a tuffarsi nelle acque linde del fiume.
Finché un  tale, una volta, non ristette davanti alla piscina naturale posta sopra una cascatella, immobile e ammutolito come se stesse pescando. Ma nulla faceva pensare alla pesca, l’uomo sostava rigido come una statua e non faceva segno di alcuna comprensione al di fuori del suo sguardo immoto, piantato in mezzo alle acque antistanti. Il “cadavere morto” era lì, sotto il pelo liquido del fiume, vestito di nero come lui, che galleggiava in qua e in là, mosso dal ristagno della corrente. Kasper lo intercettò seguendo il filo teso dello sguardo dell’altro, che sembrava ancora più assiderato del morto, là sotto.
- Accidenti!- Disse. – Dobbiamo fare qualcosa. Quant’è che lo ha avvistato? Magari respira ancora… - L’altro non rispondeva però. Sembrava come assorto in un sogno suo proprio in cui le parole, pur gridate e concitate di Kasper, sembravano scivolar via inosservate, superflue. Allora entrò con le scarpe in acqua e si avvicinò al “cadavere morto”. Poi qualcosa lo atterrì, disse – Ehi, ma…-, e fece marcia indietro. Cercò di scuotere il testimone, lì, gridando ancora: - Ehi! -. Poi si diede alla fuga.
Correndo a ritroso, interseca un altro passante e gli si rivolge senza tergiversare.
- Buongiorno. Scusi. Senta, ma c’è un'emergenza… - Ma come il precedente, anche questi passa via senza accennare neanche un gesto di cortesia, come un ricambio del saluto. E in Kasper monta la paura. Pensa che il giaccone non era simile al suo, pensa che l’annegato non era solo vestito di nero come lui… intuisce che il “cadavere morto” è lui medesimo. Gli altri non lo vedono e non lo sentono, perché lui non è lui, è quella creatura annegata che galleggia avanti e indietro laggiù, nello specchio d’acqua sopra la cascata. Ed è uno specchio anche quello in cui si è visto, quando ha gettato la sua occhiata su quella vitrea del cadavere…
- Oddio! – Grida adesso. – Ma cosa sono? Un fantasma? Sono morto? – Lo chiede al cane che scodinzola perplesso. – Ma come può accadere una cosa così?… E quando?…
Un altro viandante gli passeggia accanto, e dice gentile – Buongiorno. -, e si allontana nell’altra direzione. Lasciandolo incredulo e sbigottito. Allora, cosa succede? Kasper elaborò una serie di spiegazioni. A partire dalle prime due fondamentali: era vivo o no? Se era vivo, le spiegazioni erano fin troppo ovvie, e quindi disarmanti. Tutto era normale. Il primo tizio intorpidito davanti al “cadavere morto” era semplicemente preda del terrore che quello scenario disastroso gli aveva instillato. E il secondo era soltanto un maleducato. Quanto alle somiglianze tra lui e quel poveretto sott’acqua, erano del tutto occasionali e forse se le era immaginate lui stesso, nel caos denso e rintronante dell’avvistamento del naufragio di quel povero manichino gonfio d’acqua. E immediatamente l’idea del manichino lo ricondusse al proprio nome: non era lui un povero Kasperl senz’arte né parte? Perciò aveva ricevuto quel nome, per sottometterlo a quel destino che ora gli si sciorinava davanti in quel suo doppione, sfigurato e ridicolizzato dalla morte? Allora era forse proprio lui, lui, il morto?!… Se era lui, i conti tornavano assai più facili e comunque tutto era, come dire?, più interessante… Il destino gli era inscritto sin nel nome e poi in quella sua premonizione del “cadavere morto”: perché altrimenti gli sarebbe piovuta in testa una tale metafora? Se in qualche modo non ne fosse stato già a parte?… Sì, i conti tornavano tutti, pensò con raccapriccio, sin da quello dei suoi due incontri con passanti che non lo vedevano. E il terzo, magari, era un fantasma come lui, un suo simile effettivo. E riconobbe con un’amarezza prossima al lutto, che era perciò che parlava, ossia aveva inventato e messo in funzione, quella lingua arcaizzante in cui, verosimilmente, si fondevano passato e presente, congiuntamente ancestrali e in vigore.
Kasper non trovò una risposta esauriente ai suoi quesiti, ma ne dedusse questo: che siamo talmente oppressi dal dubbio e dall’incertezza sul nostro destino che non riusciamo nemmeno a distinguere tra la vita e la morte; e che comunque, anche se fossimo già morti, non potremmo neanche accorgercene.
 

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