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Ciò che è vero

Ciò che era vero nel quarto secolo A.C. (per esempio, in Aristotele) continuò ad esser tale anche nel terzo secolo D.C. (in Plotino, magari). E perseverò in quella sua tale verosimiglianza anche nella Scolastica, e poi nel Rinascimento, e in Spinoza e in Cartesio. Il vero restò vero con Hegel e Voltaire, e volle ancora restare vero fino a Nietzsche e Adorno, Freud, Foucault o Einstein. Il codice della validità poggia saldamente sulle fondamenta logiche del senso e della grammatica umane. Il che, in epoche più o meno auree, si salda alle onde dell’effimero e può venire alla moda, una moda intellettuale, culturale, tuttavia di breve durata, perché è difficile coltivare la fertile spiga del pensiero. Di modo che molto più correntemente il “vizio” della logica decade e sopravviene l'”ebbrezza infernale”. Come adesso, l’oggi: un buco nero che ingurgita ogni virtù, lasciando crogiolare sulla sporca crosta terrestre soltanto la fognatura.  Ora, però, la logica funziona come madre-natura: anche ignorandola, calpestandola, umiliandola, quella sempre torna a galla, riemerge come qualcosa di inaffondabile che ottusamente si cerchi di spingere sul fondo. Così, quando un qualche bruto ha torto marcio nella spinta egoistica che ne motiva i trionfi, magari violenti e spietati, non c’è santi che tenga, per l’eternità trascinerà con sé, o col proprio ricordo, il marchio marcio del suo torto.
Oggi, della verità non gliene frega niente a nessuno. I pensatori di professione se la rimpallano come una patata bollente e ognuno la tira al proprio mulino onde sconfessare e ridicolizzare quello altrui. Si parla non della verità, ma di innumerevoli, inconciliabili verità che formano solo un groviglio di aporie conflittuali e antitetiche. Il che non vale per la gente comune, per la famigerata opinione pubblica. Questa non fa che adagiarsi sull’onda del topos più a buon mercato e gli va bene anche un qualsiasi straccio di verità, sparata alla cieca da qualche imbonitore politico, più o meno smaliziato dall’occasione. Li chiamano “sciacalli” e conoscono bene il loro mestiere.  
Negli anni ’60 del Novecento, nel pieno fiorire della “rivoluzione” hippie, delle “crisi mistiche” e delle idee libertarie sbocciate nei Campus americani, assistemmo ad un certo accostarsi del pensiero corrente, ossia “debole”, a conati di coscienza, di metafisica, di spiritualità da parte di una massa in cui si risvegliava una certa acquisizione della propria individualità etica e appunto spirituale, interiore. Da tale spinta verso l’esoterico e il misteriosofico, vedemmo innalzarsi l’astro della New Age, che impastocchiava tutti i rami della meditazione “debole” in un unico calderone mistico-profetico-ufologico. Ovviamente non si poteva che deplorare una tale attitudine alla filosofia fumettistica di quelle masse di nevrotici alla ricerca di una qualche identità “superiore” (l’essere superiore …) che riscattasse le loro vite omologate e senza splendore. Eppure, si trattava dell’ultimo conato di volontà speculativa di quella enorme fetta d’umanità. Quelli non arrivarono mai all’autocoscienza e, après, le deluge … Non scaturì una verità “a prezzi stracciati”, e quelli venuti dopo smisero semplicemente di cercarla.
Certo, si dirà, cos’è la verità? Il discernimento tra bene e male? E chi è che “discerne”? Noi oggi sappiamo che un  tale discernimento non esiste e che bene e male sono categorie interdipendenti, ove il punto di vista di un osservatore diventa determinante per la loro definizione. Sappiamo quindi che a loro fondamento non c’è che una concezione degli stessi. E che tale concezione è instabile e appesa appunto ai desideri e alle necessità di quel testimone. Tuttavia, se la verità risiede nel concetto che qualcuno ne elabora, questo vuol dire che essa è comunque in quanto. Ossia, vuol significare che il bene è in quanto il suo corrispettivo dialettico, il male, non è. Non diremo, cioè, che il bene, o la verità, è in  quanto non è un armadio, o un tirebouchon. Diremo che quello è in quanto non è male, e questa è in quanto non è bugia. Ossia, i concetti sono dialettici e se quella della verità è una concezione, essa è necessariamente dialettica. Il che ci riporta all’apertura: la verità, il vero, non consistendo d’altro che di concepimenti intellettuali della verità, è logica. È logos, Ragione. Sta qui la debolezza del castello “debole”: soltanto l’uso della ragione fa sì che ci si possa interrogare sul senso, sul valore ultimo, teleologico, escatologico del cosa ci stiamo a fare qui e per andar dove. Metterci una pezza teologica, un tabù imperscrutabile, è soltanto una rinuncia alla facoltà stessa che si pone la domanda. Chiedersi, per esempio chi è Dio e rispondere che è imperscrutabile, è contraddittorio: l’ente che si pone la domanda è già in sé parte della risposta. Le risposte sono “deboli”. Il logos risiede nella domanda. 
Perciò dico che il vero era già tale ai tempi di Aristotele. Non c’è altra verità che nella auto-rivelazione dialettica del cercatore di verità. Se anche le dimostrazioni sono campate per aria, come per esempio la famosa prova dell’esistenza di Dio di Anselmo, il fatto è che comunque noi, fatti di pensiero, campiamo costantemente per aria. La nostra verità è eterea, ma è La verità. Sia pure opinabile.     
Non appena l’autocoscienza declina, entra in campo il pensiero selvaggio e, in luogo di una riflessione sui punti oscuri della condizione umana, abbiamo il mito. Il quale agisce da palliativo fin troppo confortevole. L’essere tace dietro il paravento della rimozione e la sua problematica irrisolta assume le sembianze di un bestiario variegato e stravagante. Un popolo di dèi ed eroi installa una statuaria visionaria laddove batte il martello dell’inconscio e il soggetto, ossia l’uomo-massa, invece di provvedere a se stesso, cerca nemici identici al se stesso rimosso- da abbattere. Così la verità se ne scappa sempre più nelle tenebre e il nemico,  se anche battuto ed eliminato, risorge nella sua identità con quello assassinato. Ossia, gli rivive dentro, sorta di gravidanza di uno spettro imperituro.    
 Oggidì, massime i giovani, non cercano la verità, cercano i $oldi. Il senso della vita, che non è altro che la ricerca di tale senso, si è mutato in un giro d’orizzonte lucrativo che mostra ai contemporanei una sola faccia, quella stampata al centro della banconota. In modalità e strategie diverse, è questo l’unico pensiero-unico che alberga nelle zucche marce dei quattro quarti d’umanità. Terroristi in primis. Un pensèe-unique devastante che nasconde le pulsioni profonde e vergognose che forse i soli terroristi hanno l’aire di ostentare platealmente. Ma che si svela come sottofondo comune di un sentire e di un volere comuni. Di rapina. E mentre nessuno più pensa a quello che fa, e lo fa per i soldi, la verità a cui si è rinunciato continua a mietere il suo raccolto, evidenziando come la fuga da lei è come supporre di poter battere la morte con una partita a scacchi …
 

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